Oncologia
L’oncologia è la branca specialistica della medicina che riguarda lo studio e il trattamento dei tumori, malattie in cui il processo di riproduzione cellulare sfugge ai meccanismi di regolazione, per cui le cellule si dividono troppo spesso e in maniera disordinata e incontrollata.
Tumore della mammella
Il tumore della mammella è, a livello mondiale, il tipo di neoplasia più frequente nella popolazione di sesso femminile, e rappresenta il 29% di tutti i tumori che colpiscono le donne. Questa neoplasia interessa 1 donna su 8 nell’arco della vita.
Definizione
Il tumore della mammella è una malattia potenzialmente grave se non individuata e curata per tempo ed è dovuto alla moltiplicazione incontrollata di alcune cellule della ghiandola mammaria che si trasformano in cellule maligne.
Secondo la localizzazione del tumore, si distinguono schematicamente due tipi di cancro al seno che possono presentare sia la forma invasiva che quella non invasiva:
- neoplasia duttale intraepiteliale, il cancro si sviluppa nei dotti galattofori (canali che raccolgono il latte e ne permettono il trasporto fino al capezzolo). Quando supera la parete del dotto viene chiamato carcinoma duttale invasivo e rappresenta il 70- 80% di tutte le forme di cancro del seno;
- neoplasia lobulare intraepiteliale, il cancro si sviluppa a partire dai lobuli (unità che secernono il latte durante l’allattamento). Il carcinoma lobulare viene definito tale quando il tumore supera la parete del lobulo. Rappresenta il 10-15% di tutte le forme di cancro della mammella. Può colpire contemporaneamente entrambi i seni o comparire in più punti nello stesso se
Altri tipi, meno frequenti, di carcinoma mammario sono quello tubulare, papillare, mucinoso, cribriforme.
Sintomi
Osservando il proprio seno è possibile scorgere possibili segnali di malattia, quali:
- aumento di consistenza alla palpazione (dovuto alla presenza di noduli, questo è il primo segno a cui prestare attenzione);
- piccole rientranze della cute (facilmente visualizzabili se ci si posiziona a braccia alzate di fronte a uno specchio);
- secrezioni di sangue o di siero e lesioni eczematose dei capezzoli;
- ingrossamento dei linfonodi sotto l’ascella.
Fattori di rischio
Le cause del tumore al seno non sono ancora del tutto note, ma in generale sono stati associati alla malattia diversi fattori di rischio, quali:
- l’età superiore a 50 anni, la maggior parte dei casi viene diagnosticata in donne appartenenti a questa fascia di età;
- la prima gravidanza dopo i 30 anni;
- il menarca prima dei 12 anni;
- la menopausa dopo i 50 anni;
- non aver avuto figli;
- precedenti casi di tumore della mammella in famiglia.
Circa il 10% delle donne con tumore al seno ha più di un parente malato (soprattutto nei casi di pazienti giovani). Va specificato che si eredita la predisposizione alla malattia, non la malattia stessa.
Diversi studi hanno, inoltre, dimostrato che un uso eccessivo di estrogeni aumenta il rischio di sviluppare la neoplasia. Ulteriori fattori di rischio sono rappresentati da sovrappeso e obesità, stile di vita sedentario, fumo, abuso di alcol, dieta povera di frutta e verdura.
Epidemiologia
Nel 2020, secondo le stime AIRTUM, in Italia verranno diagnosticati circa 55.000 nuovi casi di tumore della mammella femminile.
La frequenza di tumore della mammella rispetto al totale delle neoplasie che colpiscono le donne a seconda delle varie fasce d’età è la seguente: 41% tra gli 0 e i 49 anni, 35% tra i 50 e i 69 anni, 22% nella fascia di età dai 70 anni in poi.
La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi, indipendentemente da altre patologie, è da molto tempo in moderato e costante aumento grazie a diverse variabili, tra cui l’anticipazione diagnostica (screening) e la maggiore efficacia delle terapie.
Per incrementare le possibilità di guarigione, è importante diagnosticare precocemente il cancro al seno, effettuando:
- le visite mediche, è buona abitudine fare un controllo al seno presso un senologo o un medico esperto almeno una volta l’anno, indipendentemente dall’età;
- l’autopalpazione è una tecnica che consente alla donna di individuare precocemente eventuali trasformazioni del proprio seno;
- la mammografia è il metodo attualmente più efficace per la diagnosi prec Le Linee Guida del Ministero della Salute suggeriscono di eseguire una mammografia ogni 2 anni, dai 50 ai 69 anni di età, ma la cadenza può variare a seconda delle considerazioni del medico relativamente alla storia personale di ogni donna;
- l’ecografia mammaria è molto utile per esaminare il seno giovane, dato che in questo caso la mammografia non è adat Si consiglia di farvi ricorso, su suggerimento del medico, in caso di comparsa di noduli;
- la risonanza magnetica è riservata ai seni molto densi o ai dubbi diagnostici e può essere di grande aiuto in casi specifici;
- la biopsia percutanea del seno è realizzata da un radiologo e consiste nel prelevare frammenti di tessuto a livello dell’area sospetta per sede di lesione tumorale e avviene tramite l’inserimento di un ago sottil I tessuti prelevati sono successivamente analizzati al microscopio per determinare se la lesione è cancerosa e identificarne la natura in modo da orientare il medico nella scelta del trattamento adeguato.
Le opzioni terapeutiche attualmente disponibili per la cura del tumore della mammella includono la chirurgia, la chemioterapia, la radioterapia, l’ormonoterapia e le terapie biologiche. Tali trattamenti possono essere utilizzati da soli o in combinazione, in base allo stadio della malattia.
Nella scelta del tipo di trattamento incidono anche l’età della donna e il desiderio di poter eventualmente avere dei figli dopo le cure. Alcune terapie possono infatti indurre menopausa precoce, anche se la tecnica della conservazione a bassissime temperature (crioconservazione) degli ovociti (prelevati prima dell’inizio delle cure) assicura nuove prospettive.
- La chirurgia è il trattamento di prima scelta per il cancro al seno; negli anni sono stati compiuti progressi notevolissimi, passando dai primi interventi demolitivi a quelli cosiddetti “conservativi”, che mirano cioè a eliminare solo la massa tumorale, preservando il più possibile il resto del tessuto;
- La chemioterapia può essere somministrata sia prima della chirurgia, con l’obiettivo di ridurre le dimensioni del tumore in modo da rendere l’intervento chirurgico meno esteso (cosiddetta neoadiuvante), che dopo la chirurgia, per ridurre la probabilità che il tumore recidivi (cosiddetta adiuvante);
- La radioterapia consiste nell’uso di radiazioni ad alta energia per distruggere le cellule tumorali, cercando al tempo stesso di danneggiare il meno possibile le cellule nor È spesso utilizzata in combinazione con la chirurgia e la chemioterapia per ridurre la possibilità che il tumore recidivi. Anche in questo caso, se effettuata dopo l’intervento chirurgico è definita adiuvante;
- L’ormonoterapia consiste nella somministrazione di farmaci in grado di bloccare l’attività degli ormoni estrogeni, che si ritiene siano coinvolti nell’insorgenza e nello sviluppo di almeno un terzo dei tumori mammari;
- Le terapie biologiche (definite anche terapie mirate) sono rivolte contro le vie metaboliche che controllano la crescita e la diffusione del cancro, modulando specifici processi molecolari e cellulari che partecipano allo sviluppo e alla progressione della malattia. La terapia biologica include gli anticorpi monoclonali, i vaccini e le terapie genetiche.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Fonti:
- AIRC :https://www.airc.it/cancro/informazioni-tumori/guida-ai-tumori/tumore-del- seno – ultimo accesso settembre 2021
- https://www.fondazioneit/magazine/tools-della-salute/glossario-delle- malattie/tumore-al-seno – ultimo accesso settembre 2021
Key Numbers
- Cancro più frequente nella donna, in tutto il mondo
- 55.000 nuovi casi in Italia nel 2020
- 30% di tutti i tipi di cancro
Tumore della prostata
Il tumore della prostata è, a livello mondiale, il tipo di neoplasia più frequente nella popolazione di sesso maschile e rappresenta oltre il 20% di tutti i tumori diagnosticati a partire dai 50 anni di età.
Definizione
Il tumore della prostata è una malattia caratterizzata dalla presenza di cellule tumorali nella ghiandola prostatica, la cui proliferazione è sostenuta dagli ormoni maschili, in particolare dal testosterone. La ghiandola è situata sotto la vescica e davanti al retto e ha la funzione di secernere il liquido seminale che, insieme agli spermatozoi, costituisce lo sperma.
Sintomi
L’evoluzione del tumore della prostata è relativamente lenta.
I primi stadi sono solitamente asintomatici, o talvolta accompagnati da sintomi lievi e poco specifici, quali:
- presenza di disturbi minzionali (cioè nel momento in cui si urina); essi sono tuttavia spesso attribuiti all’aumento delle dimensioni della prostata a causa dell’età e in tal modo la patologia può essere ignorata per anni;
- aumento della frequenza con cui si urina;
- difficoltà a iniziare a urinare;
- necessità di urinare più volte durante la notte e urgenza o sensazione di dover urinare immediatamente.
Fattori di rischio
Pur non essendo attualmente note le cause del tumore della prostata, esistono diversi fattori di rischio che sembrano favorirne l’insorgenza, quali:
- l’età, dopo i 50 anni il rischio aumenta ogni anno in maniera esponenziale. L’esatto meccanismo sotteso all’associazione tra neoplasia della prostata ed età non è stato ancora chiarito, ma si ritiene che l’invecchiamento delle cellule e le alterazioni che si accumulano progressivamente nel DNA* possano avere un ruolo determinante;
- i precedenti familiari, è stato dimostrato che esiste una predisposizione familiare allo sviluppo del cancro prostatico, soprattutto negli uomini con padri o fratelli che soffrono o hanno sofferto della malattia;
- l’origine etnica e geografica, nei paesi sviluppati, gli uomini di discendenza africana hanno una maggiore probabilità di sviluppare un tumore della prostata rispetto ai caucasici e agli asiatici. Le ragioni di tale aumento del rischio in questo gruppo etnico non sono ancora state chiarite;
- lo stile di vita, fumare può aumentare leggermente il rischio di sviluppare un cancro della prostata, mentre l’attività fisica sembra lievemente ridurlo;
- gli ormoni maschili, alti livelli di testosterone nel sangue aumentano il rischio di sviluppare questa neoplasia.
*acido desossiribonucleico, molecola che contiene le informazioni del codice genetico
Epidemiologia
L’incidenza del carcinoma prostatico ha mostrato un andamento in crescita fino al 2003, anno dal quale si comincia a registrare una diminuzione, in concomitanza della maggiore diffusione del test dell’antigene prostatico specifico (prostate-specific antigen, PSA) utilizzato per la diagnosi precoce. Nel 2020, in Italia verranno diagnosticati 36.000 nuovi casi di tumore alla prostata.
Il carcinoma prostatico, pur trovandosi al primo posto per incidenza, occupail terzo posto nella scala della mortalità negli uomini al di sopra dei 70 anni. Si tratta comunque di una causa di morte in costante diminuzione (-1,9% per anno) da oltre un ventennio, e in Italia, al momento, la sopravvivenza degli uomini affetti da carcinoma prostatico a 10 anni è del 90%.
Per incrementare le possibilità di guarigione, è importante diagnosticare il tumore della prostata in modo precoce. Esistono molti esami clinici che, effettuati dopo una certa età, permettono di diagnosticare precocemente questa malattia. Essi sono:
- l’esplorazione rettale, il medico mediante un‘esplorazione manuale del retto valuta la presenza di masse a livello della prostata o una modificazione delle dimensioni/forma/consistenza dei tessuti prostatici;
- la misurazione del livello di PSA tramite prelievo sanguigno, il PSA è una particolare proteina prodotta esclusivamente dalla prostata. Il suo dosaggio consente di misurarne i livelli nel sangue, dove è normalmente presente; un suo aumento può essere indicativo di un cancro della prostata. Va osservato però che la presenza di un tumore prostatico non è l’unica causa di aumento del PSA;
- l’ecografia transrettale, realizzata con una sonda ad ultrasuoni introdotta nel retto, permette di riprodurre le immagini della prostata. La biopsia (prelievo di una porzione o frammento di tessuto per analisi al microscopio) permette, in caso di sospetto per malattia tumorale, di stabilire una diagnosi precisa.
La diagnosi deve tenere in considerazione i diversi stadi di evoluzione del tumore: le dimensioni della neoplasia, il coinvolgimento o meno delle ghiandole linfatiche ed eventuali metastasi negli altri distretti corporei permettono di determinare lo stadio della malattia e di conseguenza, il trattamento terapeutico più adeguato.
Il trattamento del carcinoma prostatico è notevolmente progredito negli ultimi anni; infatti l’implementazione di approcci individualizzati, ma anche multidisciplinari, ha permesso di gestire meglio questa patologia, in tutti i suoi stadi.
Nella scelta del tipo di trattamento vanno considerati sia lo stato di salute del malato che lo stadio della patologia.
- La chirurgia (prostatectomia radicale) è un trattamento locale che consiste nel rimuovere l’intera ghiandola prostatica, così come le vescicole seminali, tramite un intervento chirurgico;
- La radioterapia esterna è un trattamento locale che ha l’obiettivo di distruggere le cellule tumorali situate a livello della prostata, attraverso radiazioni ad alta energia localizzate;
- L’HIFU (Ultrasuoni Focalizzati di Alta Intensità) è una tecnica che consente di distruggere il tumore utilizzando il calore (ablazione termica);
- La brachiterapia è una tecnica di radioterapia che permette la distruzione di cellule cancerose, inserendo nella prostata degli elementi radioattivi che emettono raggi gamma;
- L‘ormonoterapia consiste nell’utilizzo di farmaci che inibiscono la produzione degli ormoni sessuali, riducendo sensibilmente il livello di testosterone. L’obiettivo di questa terapia è quello di alleviare i sintomi riducendo la massa tumorale nel carcinoma prostatico ad alto rischio e localmente avanzato e di rallentare la progressione nella malattia metastatica;
- La chemioterapia potrebbe rappresentare l’opzione da preferire quando si è evidenziata una risposta iniziale subottimale alla terapia ormonale o sono stati sviluppati sintomi gravi.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Fonti:
- ESMO ACF Prostate Cancer Patients Guide Italian Cancro Prostata Guida paziente:
https://www.esmo.org/content/download/105221/1848561/file/IT-Cancro-della-Prostata-una-Guida-per-il-Paziente.pdf – Ultimo accesso settembre 2021 - I numeri del Cancro in Italia 2020: https://www.aiom.it/i-numeri-del-cancro-in-italia/
Key Numbers
- Il tasso di sopravvivenza a 10 anni è del 90%
- Oltre il 20% di tutti i tipi di cancro diagnosticati a partire dai 50 anni di età
Tumore del rene
Ogni anno, in Italia, circa 8.500 persone ricevono la diagnosi di tumore del rene. La malattia è più diffusa tra gli uomini, soprattutto nella popolazione di età superiore ai 60 anni. Più della metà delle neoplasie sono diagnosticate casualmente in seguito ad altre indagini cliniche, poiché la sintomatologia generalmente compare quando la malattia è in fase avanzata.
Definizione
Il cancro del rene è una malattia caratterizzata dalla presenza di cellule tumorali nel rene, e precisamente nel rivestimento dei tubuli renali. I reni sono gli organi che hanno il compito di filtrare dal sangue i prodotti di scarto del metabolismo ed eliminare con l’urina le sostanze tossiche prodotte dall’organismo (urea, sali in eccesso e altre sostanze). Di solito il tumore è localizzato a un solo rene; sono infatti meno frequenti i casi in cui interessa entrambi gli organi.
Il carcinoma renale comprende una serie di sottotipi identificati attraverso lo studio delle cellule al microscopio, il più comune dei quali è quello a cellule chiare (70-80%).
Meno comuni sono i sottotipi papillare (o cromofilo, 10-15% dei casi), cromofobo (5%), dei dotti collettori e sarcomatoide.
Sintomi
Quando presenti, i sintomi clinici più frequenti sono:
- ematuria, ossia la presenza di sangue nelle urine, è spesso il primo sintomo di malattia. Può manifestarsi all’improvviso e può anche scomparire spontaneamente per poi ripresentarsi di nuovo. In ogni caso, è sempre bene consultare il medico ogni volta che si nota la presenza di tracce di sangue nelle urine;
- spasmi dolorosi a livello del fianco o addominali (coliche), causati dalla presenza di coaguli di sangue lungo la via urinaria (pelvi renale e uretere). Le coliche, come l’ematuria, sono, tuttavia, sintomi comuni anche alla calcolosi renale;
- presenza di una massa nella cavità addominale a livello della regione del fianco;
- dolore sordo al fianco;
- febbre persistente, sudore notturno, stanchezza e perdita di peso;
- calo dei globuli rossi e quindi dell’emoglobina (in caso di ematuria microscopica).
Fattori di rischio
Si sa molto poco in merito alle cause che determinano l’insorgenza del tumore del rene.
È stato tuttavia dimostrato che alcuni fattori aumentano il rischio di sviluppare la malattia, in particolare:
- il tabagismo (consumo abituale e prolungato di tabacco), in alcuni casi potrebbe più che raddoppiare il rischio, anche in funzione degli anni di esposizione e del numero di sigarette fumate;
- l’obesità, per le persone che pesano più del 25% del peso raccomandato in base all’altezza, il rischio è più alto della media;
- l’ipertensionee una patologia renale avanzata, soprattutto se si rende necessaria la dialisi, accrescono considerevolmente il rischio di sviluppare la malattia;
- l’esposizione a sostanze cancerogene sul lavoro, alcuni mestieri (lavorare negli altoforni oppure nei forni a coke, nelle industrie del carbone e dell’acciaio) espongono a sostanze potenzialmente cancerogene. Anche l’uso di alcuni materiali industriali (cadmio, amianto e piombo usati per la composizione delle vernici) è stato correlato all’origine della malattia.
Di solito il tumore del rene non è ereditario, ma se due o più componenti della stessa famiglia sviluppano la malattia (come talvolta succede), il rischio di ammalarsi per gli altri familiari è più alto.
Vi sono poi alcune malattie molto rare, tra cui la sindrome di von Hippel-Lindau, in cui il rischio di sviluppare un tumore del rene aumenta a causa di un difetto genetico ereditario. Questa malattia è caratterizzata da tumori multipli, spesso a carico di ambedue i reni, che di solito insorgono in età giovanile.
Epidemiologia
I casi di tumore del rene in Italia, nel 2018, sono stati circa 13.400, di cui 8.900 tra gli uomini e 4.500 tra le donne. Circa 11.500 casi sono localizzati nel rene, a livello del parenchima (tessuto che esplica le funzioni vitali specifiche di un organo) e quasi 2.000 nelle vie urinarie.
Si stima che il rischio di sviluppare un tumore del rene sia pari a 1 su 38 negli uomini e 1 su 90 nelle donne.
Nella maggioranza dei casi è l’ecografia a consentire la diagnosi, che viene poi confermata con una tomografia assiale computerizzata (TAC) con mezzo di contrasto. Quest’ultima permette di avere un’immagine chiara della sede del tumore, dell’interessamento delle vie urinarie, del rapporto con le strutture vascolari del rene e, in definitiva, di eseguire un programma terapeutico. Pertanto, grazie alla TAC, lo specialista è in grado di capire se il rene è “compromesso” o se è possibile salvare l’organo asportando soltanto il tessuto malato.
Altri esami sono:
- la risonanza magnetica nucleare (RMN), effettuata nei pazienti con insufficienza renale o con allergia al mezzo di contrasto utilizzato per la TAC o nelle donne in stato di gravidanza;
- la biopsia sotto controllo ecografico o tomografico, eseguita prelevando un campione di cellule renali o di tessuto da esaminare al microscopio. Aiutandosi con l’ecografia o con la TAC, il medico riesce a raggiungere con maggiore precisione il punto da cui prelevare il campione cellulare.
Esistono diverse terapie per trattare questa patologia. L’impiego di una o più di esse dipende dalle condizioni del paziente e dallo stadio del tumore.
- La chirurgia, è il trattamento di prima scelta per la malattia localizzata e localmente avanzata, conservativa quando possibile;
- La terapia a bersaglio molecolare, sono stati sviluppati nuovi trattamenti per la terapia mirata, con lo scopo di colpire obiettivi precisi a livello cellulare, critici per la crescita e la sopravvivenza delle cellule tumorali. I farmaci mirati efficaci nel trattamento del tumore del rene hanno un comune denominatore: svolgono un’azione “anti-angiogenica”, hanno cioè la capacità di inibire la formazione di nuovi vasi sanguigni. Questa azione interferisce con lo sviluppo del tumore che, per crescere, ha bisogno di ossigeno e di sangue e dunque di nuovi vasi sanguigni che lo irrorino;
- L’immunoterapia, consiste nella somministrazione di sostanze prodotte dall’organismo stesso oppure di origine sintetica per stimolare, orientare o ripristinare il sistema immunitario dell’organismo a difendersi dalla malattia. Può essere utile per controllare la malattia in stadio avanzato oppure che ha già prodotto metastasi in altri organi. In alcuni casi può servire a ridurre le dimensioni del tumore o a rallentarne la crescita;
- La chemioterapia, il cancro del rene è estremamente resistente alla chemioterapia e non ci sono chiare indicazioni per la sua somministrazione a pazienti con carcinoma renale a cellule chiare metastatico. Solo alcuni particolari e rari tipi di tumore del rene, come quelli dei dotti collettori del Bellini, vengono trattati con la chemioterapia, essendo biologicamente più simili ai tumori della vescica che ai carcinomi renali veri e propri;
- La radioterapia, consiste nell’uso di radiazioni ad alta energia per distruggere le cellule tumorali, cercando al tempo stesso di danneggiare il meno possibile le cellule normali. Il tumore del rene è poco sensibile alle radiazioni e per questo il trattamento viene riservato ad alcune situazioni particolari, quali le metastasi ossee ed encefaliche.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico
Fonti:
- AIMAC https://www.aimac.it/libretti-tumore/cancro-rene/sintomi-cancro-rene – ultimo accesso settembre 2021
- I numeri del Cancro in Italia – https://www.aioit/i-numeri-del-cancro-in-italia/ – ultimo accesso settembre 2021
- AIOM http://media.aiom.it/userfiles/files/doc/iniziative-campagne-eventi-pubblici/2017_tumore-rene-web.pdf -ultimo accesso settembre 2021
- gov. Renal Cell Cancer Treatment (PDQ®)– Patient Version: https://www.cancer.gov/types/kidney/patient/kidney-treatment-pdq – ultimo accesso settembre 2021
Key Numbers
- 500 persone in Italia ricevono la diagnosi di tumore del rene
- La malattia è più diffusa tra gli uomini di età superiore ai 60 anni
Tumori neuroendocrini
I tumori neuroendocrini (TNE o NET dall’inglese Neuro-endocrine Tumors) sono tumori rari, spesso asintomatici; originano nella maggior parte dei casi a livello gastrointestinale, ma possono interessare anche altri distretti corporei quali ad esempio polmoni, cute, tiroide, midollare del surrene e timo. In una minoranza di casi (20-30%) possono produrre una quantità eccessiva di ormoni, peptidi e altre sostanze attive che determinano diversi tipologie di disturbi a secondo della sostanza secreta.
Definizione
I tumori neuroendocrini (NET) sono tumori molto eterogenei che originano da cellule di derivazione neuroectodermica (tessuto embrionale destinato a formare il sistema nervoso); tali cellule sono presenti in tutto l’organismo e sono caratterizzate da un comportamento biologico molto variabile. I NET possono insorgere in numerosi organi: nel 60% circa dei casi, si sviluppano a livello del tratto gastro-entero-pancreatico (GEP) ove la componente cellulare neuroendocrina è più diffusa, interessando l’intero tratto dall’esofago al retto, incluso il pancreas. La seconda sede più frequente è rappresentata dal tratto broncopolmonare (25%).
Questi tumori inizialmente localizzati, possono in seguito causare metastasi ad altri organi, in particolare modo al fegato. Dato che si presentano spesso in forma asintomatica, almeno nelle fasi iniziali della malattia, la diagnosi è spesso tardiva e nella stramaggioranza dei casi essa viene effettuata quando la neoplasia è già diffusa ad altri organi.
Benché vengano generalmente descritti come tumori indolenti a lenta evoluzione (spesso impiegano anni prima di evolvere in forme diagnosticabili), sono tuttavia da considerarsi sempre di natura maligna.
Sintomi
I NET possono essere distinti in funzionanti e non funzionanti a seconda che siano associati o meno a sindromi cliniche specifiche.
I primi -che rappresentano circa il 20% del totale dei NET- sono caratterizzati da una eccessiva secrezione di ormoni o altre sostanze attive che causano la comparsa di sintomi clinici specifici e sindromi endocrine funzionali, la più comune delle quali è nota come sindrome carcinoide.
Nella restante parte dei casi (70-80%) e nella fase iniziale di malattia, i NET non presentano sintomi clinici specifici, a causa della loro dimensione ridotta e dell’assenza di produzione ormonale. In questo caso si parla di NET non funzionanti. Quando la massa tumorale raggiunge dimensioni significative o compromette la funzionalità di specifici organi, la malattia diventa sintomatica con segnali clinici estremamente variabili in base all’organo (o agli organi) colpito e alle dimensioni.
I sintomi causati dalla crescita del tumore
Benché costituiti da cellule di origine endocrina, la maggior parte dei NET del tratto gastroenterico non provoca ipersecrezione ormonale. Questi tumori detti “non funzionanti” vengono talvolta diagnosticati in modo casuale nel corso di accertamenti condotti per altre cause e spesso tardivamente. Quando raggiungono dimensioni significative sono spesso in forma già metastatica, e provocano:
- dolore addominale;
- sensazione di gonfiore;
- stipsi;
- occlusione intestinale;
- presenza di sangue nelle feci;
- nausee o vomito;
- perdita di peso;
- ittero.
I sintomi causati dalla secrezione ormonale del tumore
Alcuni NET secernono grandi quantità di ormoni o altre sostanze attive e sono pertanto responsabili di diversi sintomi clinici tra i quali:
- diarrea;
- perdita di peso;
- disidratazione;
- arrossamenti cutanei e vampate di calore;
- broncospasmo;
- palpitazioni;
- ulcere gastriche;
- intolleranza al glucosio.
La più comune sindrome endocrina associata ai NET funzionanti è la sindrome carcinoide, che arriva a rappresentare più del 40% di tutte le sindromi delle forme funzionanti. È associata all’eccessiva secrezione prevalentemente di serotonina da parte delle cellule tumorali. La si riscontra più spesso nei NET che originano dall’ileo. Sintomi clinici che accompagnano questa sindrome sono diarrea, vampate di calore al volto e al collo (flushing), broncospamo e scompenso cardiaco destro. Ulteriori sintomi possono essere l’iperidrosi, la perdita di peso e la comparsa di lesioni cutanee simili a quelle associate alla pellagra.
Fattori di rischio
La maggior parte delle persone colpite da tumori neuroendocrini non presenta un fattore di rischio identificabile. In rari casi, i NET del tratto gastroenterico hanno origine genetica (si parla pertanto di predisposizione) e si presentano in associazione con altri tumori. La più comune di queste sindromi è la neoplasia endocrina multipla di tipo 1 (MEN1), associata essenzialmente a tumori del pancreas, dell’ipofisi, delle ghiandole paratiroidee e surrenali. Non sono note misure di prevenzione per i NET
Epidemiologia
I NET sono neoplasie rare con un’incidenza stimata, negli Stati Uniti, di 6,98 nuovi casi l’anno su 100.000 individui.
In Italia nel 2015 si sono registrati 2.696 nuovi casi con una prevalenza (numero soggetti affetti dalla malattia) pari a 24.000 casi nel 2010 (dati registro AIRTUM 2016). Sono più frequenti nei soggetti, con una età media, al momento della diagnosi, di circa 65 anni e colpiscono donne e uomini con pari frequenza.
Come già ricordato, vista l’assenza di sintomi o la presenza di sintomi non specifici nelle fasi iniziali della malattia, i NET possono passare inosservati per vari anni. La diagnosi è spesso tardiva, con un ritardo diagnostico che può raggiungere i 5-7 anni in media. Di conseguenza, il tumore nel 20 – 50 % dei casi si presenta alla diagnosi già metastatico, riducendo quindi le possibilità di curare la malattia.
Gli esami che possono essere effettuati per diagnosticare i NET sono:
- l’endoscopia o l’eco-endoscopia (esame che permette di visualizzare le pareti di una cavità utilizzando gli ultrasuoni), tramite queste procedure si evidenziano i tumori situati all’interno del tratto gastroenterico (gastroscopia e colonscopia ad esempio) o del tratto bronchiale (broncoscopia), permettendo altresì di realizzare biopsie;
- la tomografia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica nucleare (RMN) permettono di visualizzare i tumori ma non di confermarne la natura endocrina;
- gli esami di medicina nucleare basati sull’iniezione di marcatori che si fissano ai ricettori delle cellule neuroendocrine del tumore (scintigrafia, tomografia ad emissione di positroni [PET] affiancata alla TAC) per confermare la natura neuroendocrina del tumore;
- le analisi del sangue/urine per rilevare i NET funzionanti in base all’ormone secreto in maniera anomala;
- lo studio al microscopio del tumore o di un campione bioptico, è l’unico esame che permette di confermare definitivamente la diagnosi. Per questo, si propone spesso al paziente di fare una biopsia del tumore, cioè prelevarne una piccola parte per esaminarla al microscopio (esame istologico).
A causa della loro eterogeneità e della loro lenta evoluzione, che spesso può durare anche, anni o decenni, un paziente colpito da un tumore neuroendocrino, nel corso della propria vita, può ricevere dai 3 ai 4 o più tipi diversi di trattamento e incontrare lungo il suo percorso diversi specialisti (ad esempio endocrinologo, oncologo, chirurgo, medico di medicina nucleare, gastroenterologo).
Oggi sono disponibili diversi trattamenti per la cura dei NET.
- La chirurgia, che permette di rimuovere il tumore in maniera radicale se la massa è localizzata, o diminuirne il volume quando il tumore si presenta in forma disseminata, non più aggredibile radicalmente. Trattandosi di un intervento invasivo e potenzialmente impegnativo, l’opzione chirurgica si sceglie in seguito a incontri multidisciplinari di esperti della patologia in base alle caratteristiche della malattia e del paziente (età, altre malattie concomitanti);
- La chemioterapia, ha l’obiettivo di distruggere le cellule tumorali. È utilizzata da sola o in combinazione con la chirurgia;
- L’embolizzazione (induzione della necrosi tumorale mediante l’ostruzione di un’arteria che fornisce l’apporto vascolare al tumore) e la radiofrequenza: sono tecniche utilizzate per interventi locali diretti sulle lesioni epatiche;
- Gli analoghi della somatostatina (analoghi sintetici dell’ormone somatostatina) sono utilizzati come terapia sia per contrastare i sintomi associati alla sindrome carcinoide, sia come terapia antiproliferativa per rallentare la progressione del tumore. Anche alcuni composti, come gli inibitori della triptofano idrossilasi, possono essere somministrati in associazione con un analogo della somatostatina per il trattamento della diarrea da sindrome da carcinoide;
- Le terapie mirate, si tratta di terapie che utilizzano molecole dirette contro specifici bersagli molecolari coinvolti in processi chiave per la proliferazione delle cellule tumorali o la loro sopravvivenza;
- Terapia radiometabolica (PRRT), si basa sostanzialmente sulla capacità delle cellule dei NET di concentrare al loro interno sostanze radioattive che danneggiano il DNA cellullare inducendo la morte selettiva della cellula tumorale.
I pazienti non sono sottoposti a terapie mediche o chirurgiche e sono semplicemente monitorati regolarmente con esami ematochimici, radiologici e clinici quando il tumore è asintomatico, non aumenta di dimensioni (o progredisce molto lentamente) e non può essere rimosso completamente. Indipendentemente dal fatto che il tumore sia trattato o meno, i pazienti avranno bisogno di un controllo regolare da parte di diversi specialisti in centri di cura specializzati, dedicati al trattamento dei NET.
Le informazioni di questa pagina non sosti tuiscono il parere del medico.
Fonti:
- Dasari et al JAMA Oncology 2017
- I Tumori rari in Italia – Rapporto 2015 AIRTUM
- Oberg et al Clinical Oncology 2012
- Modlin et al Lancet Oncology 2008
- Oberg et al 2012;
- Modlin et al 2008.
- Dasari et al 2017
Key Numbers
- 65 anni età media alla diagnosi
- 2.696 nuovi casi in Italia nel 2015
- 6,98 nuovi casi anno su 100.000 abitanti*
*(dati SEER 1973-2012)
Tumore midollare della tiroide
Il tumore midollare della tiroide è uno dei tumori tiroidei meno diffusi e rappresenta il 3-5% di tutti i tumori che si manifestano nella tiroide. Esistono due forme di carcinoma midollare della tiroide: la forma sporadica (75%) e la forma familiare (25%).
Definizione
Il tumore midollare della tiroide è dovuto alla moltiplicazione incontrollata delle cellule C, o parafollicolari che secrenono calcitonina e sono distribuite in tutta la ghiandola tiroidea. Responsabile dell’origine del tumore è, in circa il 50% dei casi, una anomala ed eccessiva attivazione del gene RET, che codifica per una proteina della membrana cellulare coinvolta in diverse funzioni e appartenente alla famiglia delle proteine ad attività tirosin-chinasica. La presenza di tale mutazione del gene RET è inoltre un fattore prognostico negativo per l’andamento della malattia. Questo tipo di neoplasia è più aggressiva del tumore differenziato (follicolare, papillare ecc.) della tiroide, ma meno aggressiva di quello anaplastico.
Sintomi
Il carcinoma midollare della tiroide si presenta nella maggior parte dei casi con un nodulo tiroideo, che può essere associato ad uno o più linfonodi palpabili nel collo (metastatico). I sintomi possono essere conseguenti alla massa del tumore o delle metastasi, oppure all’ipersecrezione ormonale. In particolare, i più comuni sono:
- diarrea;
- rossore cutaneo del volto e del tronco;
- sindrome di Cushing (meno frequentemente) che si associa a sintomi quali aumento improvviso di peso, irsutismo, caduta dei capelli, ciclo mestruale irregolare, perdita di tono muscolare, irritabilità, affaticamento e difficoltà di concentrazione.
In certi casi, i pazienti sono del tutto asintomatici e la presenza di metastasi è rivelata grazie alle tecniche di imaging, alla presenza di un aumento di calcitonina nel sangue o all’aumento di ormone carcinoembrionario (CEA).
Fattori di rischio
Nel 25% dei casi, il carcinoma midollare della tiroide ha un’origine ereditaria. In questi casi, la malattia può far parte di sindromi multifattoriali – le neoplasie endocrine multiple o MEN, di tipo 2A e 2B – oppure comparire in assenza di altre patologie connesse (carcinoma midollare della tiroide familiare, o FMTC).
- MEN 2A: sindrome associata, oltre al carcinoma midollare della tiroide, anche al feocromocitoma (tumore delle cellule che producono adrenalina della midollare del surrene) e all’iperparatiroidismo (condizione caratterizzata da un eccesso di ormone paratiroideo nel sangue);
- MEN 2B: sindrome associata, oltre al carcinoma midollare della tiroide, al feocromocitoma, alla ganglioneuromatosi (proliferazione anomala di alcune tipologie di cellule intestinali) e ad alcune anomalie scheletriche.
Epidemiologia
Il carcinoma midollare della tiroide è un tumore molto raro con un’incidenza di 0,22 ogni 100.000 abitanti. Da diversi studi emerge che la sopravvivenza a 10 anni dei pazienti con tumore midollare della tiroide è del 50%.
Una diagnosi precoce del carcinoma midollare della tiroide è fondamentale per incrementare le possibilità di cura della malattia. Lo stadio avanzato del tumore al momento della diagnosi, la presenza di metastasi linfonodali o a distanza, uniti alla presenza di una mutazione del gene RET, sono i più importanti fattori prognostici negativi.
Gli esami utili per la diagnosi del carcinoma midollare tiroideo sono:
- gli esami del sangue, in particolare quelli che misurano i livelli di calcitonina ematica e dell’ormone carcinoembrionario (CEA).
La calcitonina è secreta dalle cellule parafollicolari, sia sane che tumorali. È un marker molto specifico e rivelatore di malattia, mentre il CEA è più aspecifico, ma è un buon predittore di prognosi sfavorevole; - gli esami radiologici, da effettuare quando i valori dei markers tumorali sono sopra la media hanno lo scopo di individuare i siti di presenza della malattia. L’ecografia del collo e del fegato sono esami di routine, di facile esecuzione e senza rischi.
Per le metastasi a distanza, solitamente si effettua una tomografia assiale computerizzata (TAC) con mezzo di contrasto. Per quanto riguarda le metastasi cerebrali, e in certi casi quelle epatiche, invece è preferibile la risonanza magnetica nucleare (RMN), più sensibile soprattutto quando il paziente è in terapia con trattamenti antiangiogenetici. Infine, la PET può essere utile per l’identificazione di piccole metastasi non individuabili in altro modo.
Il trattamento iniziale, ove possibile, prevede l’escissione chirurgica di una parte o dell’intera tiroide (lobectomia tiroidea o tiroidectomia), con eliminazione di tutte le cellule tumorali e la dissezione dei linfonodi del collo.
Quando il trattamento chirurgico non può essere effettuato o non è del tutto risolutivo, esistono diverse opzioni terapeutiche, mirate ad eradicare completamente le cellule neoplastiche, che vanno a colpire differenti target.
- Terapia sistemica con inibitori delle tirosin-chinasi (TKI). I carcinomi midollari della tiroide, come molti tumori aggressivi, mostrano un’elevata capacità di costruire nuovi vasi sanguigni (angiogenesi), per supportare la rapida crescita della massa tumorale. Gli inibitori delle tirosin-chinasi hanno un doppio bersaglio: da un lato agiscono sui recettori del fattore di crescita endoteliale (VEGFr) che è responsabile dell’aumento dei vasi sanguigni, dall’altro sulle proteine chiamate-tirosin chinasi, alla cui classe appartiene RET.
Questi farmaci vengono usati fino a quando il tumore non riprende a crescere, oppure il paziente non mostra i segni di effetti collaterali non tollerabili; - Terapia sistemica con agenti citotossici. Gli agenti citotossici tradizionali vengono somministrati laddove il trattamento di prima linea fallisce, oppure nei casi di controindicazioni a terapie di prima linea.
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Fonti:
Wells SA et al., e. J Clin Endocrinol Metab. 2013
Key Numbers
- Nel 25% dei casi è ereditario, nei restanti casi sporadico
- La sopravvivenza a 10 anni dei pazienti è del 50%.
Tumore epatocellalulare
Il tumore epatocellulare è il carcinoma epatico più comune. Esso rappresenta circa il 75-85% di tutti i tumori primari del fegato e nella maggior parte dei casi si manifesta nell’ambito di malattie epatiche croniche. Esistono altri tipi di tumori del fegato più rari quali il colangiocarcinoma e l’epatoblastoma.
Definizione
Il tumore epatocellulare è causato dalla proliferazione incontrollata, all’interno dell’organo, delle tipiche cellule del fegato, gli epatociti, che si trasformano in cellule maligne.
Il fegato è situato sul lato destro del corpo, sotto la gabbia toracica. E’ uno degli organi più voluminosi dell’organismo, con un peso pari a circa il 2% del totale del corpo. Esso adempie a molte funzioni fondamentali per la vita: elabora i sottoprodotti della digestione, secerne la bile che interviene nella digestione degli alimenti, mantiene il metabolismo di proteine, grassi e carboidrati e produce alcune sostanze quali l’albumina e i fattori della coagulazione. Si compone di due lobi principali, destro e sinistro che a loro volta sono suddivisi in segmenti.
Lo sviluppo di un tumore epatocellulare è un processo complesso che origina da una combinazione di fattori genetici e ambientali.
La cirrosi epatica che generalmente è presente quando si sviluppa il tumore, è una malattia cronica causata da differenti fattori (quali infezioni virali, abuso di alcool e patologie specifiche); in questa condizione le cellule epatiche sono sostituite da tessuto cicatriziale e ciò fornisce un microambiente favorevole per la trasformazione degli epatociti sani in epatociti displastici e quindi in lesioni neoplastiche.
Il tumore epatocellulare può manifestarsi in forma unifocale, multifocale oppure diffusa anche in altri distretti corporei.
Sintomi
I sintomi legati al tumore epatocellulare dipendono dallo stadio sia del tumore che della cirrosi sottostante. Il carcinoma epatocellulare non cirrotico, nella fase iniziale, può presentarsi asintomatico, mentre con l’avanzare della malattia, il quadro sintomatologico comprende:
- dolore localizzato al lato destro della regione addominale superiore, alla spalla destra o alla schiena
- malessere
- indigestione o inappetenza
- nausea e calo ponderale
- innalzamento del livello di bilirubina e conseguente ittero (colorazione giallastra della pelle e degli occhi)
- prurito
- febbre
- gonfiore localizzato alla cavità addominale o agli arti inferiori
- encefalopatia epatica
- ascite
- emorragie
- sindrome paraneoplastica (un insieme di manifestazioni associate al tumore maligno, ma non causate direttamente da esso), caratterizzata da ipoglicemia, diarrea, oltre a manifestazioni cutanee e valori anormali di laboratorio.
Le metastasi extraepatiche più comuni sono al polmone, ai linfonodi intra-addominali, al tessuto osseo e a quello surrenale.
Fattori di rischio
La cirrosi rappresenta il fattore di rischio più importante, indipendentemente dalle cause che la provocano.
I fattori di rischio, che variano a seconda delle zone geografiche, comprendono la cirrosi sottostante, l’infezione cronica da virus dell’epatite B (HBV) e dell’epatite C (HCV), l’abuso di alcol, l’esposizione ad aflatossine e all’acido aristolochico, la steatosi epatica non alcolica (NAFLD), il diabete di tipo 2, l’obesità, il consumo di tabacco e l’emocromatosi ereditaria.
L’infezione cronica da HBV e HCV causa, a livello globale, l’80% dei casi di tumore epatocellulare. La NAFLD è oggi, nella maggior parte dei paesi sviluppati, la più comune malattia epatica e uno dei principali fattori di rischio di tumore epatocellulare, mentre la cirrosi alcolica è il secondo fattore di rischio più comune in Europa e negli USA.
Altre malattie del fegato, come le malattie biliari croniche e le malattie genetiche/metaboliche possono portare alla cirrosi e contribuire allo sviluppo di tumore epatocellulare, con una percentuale compresa tra il 5% e il 10%.
Epidemiologia
Il tumore epatocellulare rappresenta la quarta causa più comune di morte per cancro. Nel 2018 sono stati registrati globalmente circa 841.000 nuovi casi e in Italia nel 2020 si stimano circa 13.000 nuove diagnosi, con 7.800 decessi. La prevalenza è maggiore negli uomini rispetto alle donne.
L’età all’insorgenza varia nelle diverse parti del mondo: tende a manifestarsi più tardi in Europa, Giappone e Nord America (età media > 60 anni), mentre in alcune parti dell’Asia e nella maggior parte dei Paesi Africani, il tumore epatocellulare è comunemente diagnosticato in età più giovane (fra i 30 e i 60 anni).
Nonostante i diversi programmi di prevenzione (sia primaria che secondaria) abbiano dimostrato la loro efficacia nel ridurre la mortalità, ancora oggi, in molti Paesi, l’incidenza e la mortalità continuano ad aumentare.
La sopravvivenza a 5 anni dei pazienti affetti è di circa il 20%.
La maggior parte dei pazienti affetti da tumore epatocellulare purtroppo ricevono diagnosi ad uno stadio avanzato della malattia.
Il tumore epatocellulare può essere diagnosticato con l’ecografia, la tomografia computerizzata (TC) o la risonanza magnetica (RM).
L’ecografia con mezzo di contrasto viene utilizzata per la caratterizzazione delle lesioni rilevate dall’indagine senza contrasto.
La TC e la RM, effettuate con mezzo di contrasto, sono le tecniche diagnostiche più utilizzate per il rilevamento e la caratterizzazione dei singoli noduli.
La biopsia epatica non viene eseguita di routine, poiché la procedura è invasiva e può essere associata al rischio di disseminazione tumorale ed emorragia. Viene effettuata solo in casi particolari , in genere quando l’imaging con contrasto non è possibile o i risultati non sono caratteristici per tumore epatocellulare.
La gestione del paziente con tumore epatocellulare da parte di un team multidisciplinare (con epatologo, chirurgo, oncologo, radiologo interventista e palliativista) garantisce un miglior percorso di cura.
La decisione relativa all’attuazione di un intervento terapeutico è subordinata allo stadio della malattia e allo stato della funzione epatica.
- Nello stadio iniziale del tumore i pazienti con sufficiente tessuto epatico funzionante possono essere sottoposti a intervento chirurgico di resezione. Per pazienti che non sono candidabili a resezione, l’ablazione (crioablazione, con radiofrequenza, microonde o etanolo) rappresenta una strategia terapeutica alternativa, utilizzabile anche come trattamento-ponte in vista del trapianto.Una quota, infatti, di pazienti in stadio iniziale, non candidabili alla resezione, può essere sottoposta a trapianto d’organo.
- Negli stadi intermedi sono indicati trattamenti locali quali la chemio-embolizzazione attraverso catetere arterioso (TACE) e la radio-embolizzazione transarteriale (TARE). A differenza della TACE, la TARE può essere utilizzata in pazienti con trombosi portale.
- Negli stadi avanzati di malattia i pazienti con buona funzionalità epatica possono essere sottoposti a terapia sistemica.Le terapie molecolari mirate, che inibiscono i recettori specifici dei fattori di crescita tumorali, in particolare quelli legati a meccanismi angiogenetici, sono un approccio efficace per la gestione del tumore epatocellulare. Lo scenario terapeutico, in particolare fermento negli ultimi anni, comprende terapie di prima e di seconda-terza linea.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico
Fonti
- AIMAC https://www.aimac.it/libretti-tumore/cancro-fegato
- AIOM/AIRTUM/SIAPEC-IAP I numeri del cancro 2020
- Alqahtani A et al. Medicina 2019;55:526; doi:10.3390/medicina55090526
- Asafo-Agyei KO, Samant H. StatPearls Publishing 2020 Jan; https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK559177/?report=printable
- Bray F et al. Cancer J Clin 2018;68:394-424; doi: 10.3322/caac.21492
- Chedid MF et al. ABCD Arq Bras Cir Dig 2017;30(4):272-278; doi: /10.1590/0102-6720201700040011
- Ghouri YA et al. J Carcinog. 2017;16:1. Published online 2017 May 29; doi: 10.4103/jcar.JCar_9_16
- Kulik L, El-Serag HB. Gastroenterology 2019;156(2):477-491.e1; doi: 10.1053/j.gastro.2018.08.065
- Rimassa L et al. Liver Cancer 2019;8:427-446; doi: 10.1159/000499765
- Singal AG et al. Journal of Hepatology 2020;72:250-261
- The Global Cancer Observatory. March 2019 https://gco.iarc.fr/today/data/factsheets/cancers/11-Liver-fact-sheet.pdf
- World Cancer Report-Cancer research for cancer prevention. International Agency for Research on Cancer 2020
- Yang JD et al. Nat Rev Gastroenterol Hepatol 2019;16(10):58-604; doi: 10.1038/s41575-019-0186-y
Key Numbers:
- Nel 2018 sono stati registrati circa 841.000 nuovi casi nel mondo
- La prevalenza è maggiore negli uomini rispetto alle donne
Oncologia
Neurologia
La neurologia è la branca specialistica della medicina che studia le patologie del sistema nervoso centrale, che possono dare origine a disturbi del movimento altamente invalidanti capaci di interferire con la qualità di vita e l’autonomia dei pazienti.
Blefarospasmo
Il blefarospasmo è una patologia che si manifesta con contrazioni ripetute ed involontarie dei muscoli delle palpebre. Questo disturbo può anche manifestarsi con un’intensa e frequente chiusura delle palpebre o un’impossibilità totale di aprire gli occhi, limitando l’attività quotidiana.
Definizione
Il blefarospasmo è la seconda forma più frequente di distonia focale (alterazione del tono dei muscoli localizzata) dell’adulto. Provoca spasmi muscolari che obbligano a chiudere gli occhi in modo incontrollato. Queste contrazioni muscolari possono diventare quasi continue e simulare una condizione di cecità pur avendo gli occhi in perfette condizioni. Anche se il blefarospasmo colpisce spesso solo un lato del viso, entrambe le palpebre sono contemporaneamente coinvolte.
Sintomi
Il blefarospasmo si presenta spesso in modo progressivo e la chiusura improvvisa delle palpebre inizia generalmente con semplici ammiccamenti. Nella maggior parte dei casi, questo disturbo aumenta in caso di attività visiva intensa (lettura, visualizzazione di uno schermo, guida di veicoli).
Dopo alcune settimane, gli spasmi provocano un’occlusione completa delle palpebre della durata di qualche secondo fino ad arrivare a qualche minuto. Il blefarospasmo può persino causare cecità funzionale, diventando così un limite importante.
Questa malattia può anche essere associata ad una contrazione dei muscoli della parte inferiore del viso e dalla mascella (sindrome di Meige), che comporta la comparsa di anomale espressioni del volto quando si cerca di aprire gli occhi.
La frequenza degli spasmi varia generalmente nel corso della giornata. Sono spesso distanziati nel tempo al risveglio e più frequenti nel pomeriggio. Ci sono alcune situazioni che possono aggravare il disturbo, quali:
- l’esposizione ad eccessiva luminosità;
- guidare un veicolo;
- guardare la televisione;
- leggere;
- situazioni di stress o stanchezza.
Indossare appositi occhiali o riposare può alleviare i sintomi del blefarospasmo.
Cause
La causa del blefarospasmo, come quella della sindrome di Meige, è ancora sconosciuta. Si parla di blefarospasmo essenziale (o idiopatico) e secondario. È stato tuttavia individuato un rischio maggiore di sviluppare questa malattia nelle persone che soffrono di elevata sensibilità alla luce, che presentano secchezza agli occhi o che assumono farmaci della classe delle benzodiazepine. La presenza di blefarospasmo nei pazienti con malattia di Parkinson potrebbe suggerire un possibile ruolo della dopamina nei meccanismi che causano il blefarospasmo.
Epidemiologia
La prevalenza del blefarospasmo varia tra 20 e 133 casi per milione, in base all’area geografica. Gli studi concordano nell’affermare una predominanza del blefarospasmo nel sesso femminile con un picco di insorgenza nella sesta decade. La menopausa potrebbe essere un fattore predisponente l’insorgenza del blefarospasmo nelle donne più anziane.
La diagnosi è fatta in seguito alla descrizione dei sintomi da parte del paziente. Sono state sviluppate di recente delle Linee Guida specifiche per la diagnosi basate su criteri obiettivi (Defazio et al. 2017).
Il blefarospasmo presenta sintomi comuni ad altri disturbi, perciò non deve essere confuso con:
- la ptosi, abbassamento completo o parziale delle palpebre provocato dalla perdita di forza o paralisi del muscolo elevatore della palpebra superiore;
- lo spasmo emifacciale, che è una contrattura non distonica involontaria dei muscoli di un solo lato del viso, provocata dalla lesione di un nervo facciale. Questo disturbo causa spesso un aumento dell’ammiccamento (chiusura rapida e momentanea delle palpebre).
I sintomi del blefarospasmo possono essere ridotti o controllati con diversi tipi di trattamenti.
- Le iniezioni di tossina botulinica di tipo A, è il trattamento di elezione per il blefarospasmo, in quanto blocca la trasmissione nervosa a livello della placca neuromuscolare e diminuisce le contrazioni muscolari della palpebra del paziente. Il trattamento ha effetto immediato (1-5 giorni dopo la somministrazione) con una durata del miglioramento sintomatico di 2-4 mesi.
- Le terapie farmacologiche, quali:
- i miorilassanti, che rilassano i muscoli e riducono gli spasmi muscolari;
- gli anticolinergici, che permettono di ridurre gli effetti dell’acetilcolina, un neurotrasmettitore del sistema nervoso;
- le benzodiazepine, che riducono l’ansia e calmano gli spasmi dolorosi.
- La chirurgia, viene impiegata nelle forme più gravi di blefarospasmo, in seguito al fallimento del trattamento con tossina botulinica. Sotto consiglio di un oftalmologo specialista, è possibile procedere alla resezione dei muscoli orbicolari delle palpebre (le cui fibre sono disposte secondo un andamento circolare intorno agli occhi), fino ad arrivare ai muscoli della fronte, i muscoli corrugatori (situati lungo le arcate sopraccigliari) o inter sopraccigliari (fra le sopracciglia).
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Fonti:
- Giovanni Defazio, MD, PhD, Mark Hallett, MD, Hyder A. Jinnah, MD, PhD, Antonella Conte, MD, PhD, and Alfredo Berardelli, MD. Blepharospasm 40 Years Later. Mov Disord. 2017 April ; 32(4): 498–509. doi:10.1002/mds.26934
- Mark Hallett, MD, Craig Evinger, PhD, Joseph Jankovic, MD, Mark Stacy, MD. Update on blepharospasm. Report from the BEBRF International Workshop. Neurology® 2008;71:1275–1282
- Dutton JJ.,Buckley EG. Botuliunum toxin in the management of blepharospasm. Arch Neurol 1986; 43: 380-382.
- M Wakakura, T Tsubouchi, J Inouye Etizolam and benzodiazepine induced blepharospasm. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2004;75:506–509
Key Numbers
- Appare generalmente nella 6a decade di vita
- La prevalenza del blefarospasmo varia tra 20 e 133 casi per milione in base all’area geografica
Distonia cervicale
La distonia cervicale, anche denominata torcicollo spasmodico, è caratterizzata da spasmi intermittenti o continui dei muscoli del collo e a volte delle spalle, che causano una postura anomala del capo. Questo disturbo neurologico è progressivo e può essere accompagnato da tremore del capo, dolori a livello della regione cervicale e un’elevazione delle spalle.
Definizione
La distonia cervicale (o torcicollo spasmodico) è la forma più frequente di distonia focale (alterazione del tono dei muscoli localizzata). Risultato di un disturbo neurologico, produce contrazioni muscolari che causano movimenti anomali del collo, del capo e a volte delle spalle. I muscoli del collo sono interessati da contrazioni involontarie e protratte, movimenti ripetitivi di torsione, spasmi involontari, provocando una postura singolare e poco confortevole.
Sintomi
I sintomi del torcicollo spasmodico appaiono generalmente in modo progressivo: il capo assume una posizione anomala in modo intermittente, senza però causare disturbi o destare sospetti. In caso di shock fisico o psicologico, la malattia si può presentare in modo più brusco.
Si manifesta con:
- contrazioni che possono essere brevi o più prolungate, fino ad assumere una postura inconsueta e fissa del capo;
- tremore del capo;
- dolori nella regione cervicale;
- elevazione della spalla/e.
A lungo andare, la distonia cervicale provoca una deviazione involontaria del capo che può assumere posture tipiche, quali:
- torcicollo, rotazione del capo in senso orario o antiorario (più del 70 % dei casi);
- laterocollo, inclinazione laterale del capo a destra o a sinistra (dal 40% al 70 % dei casi);
- anterocollo, flessione del capo in avanti (dal 10% al 20 % dei casi);
- retrocollo, estensione del capo indietro (dal 25% al 35 % dei casi);
- torcicollo complesso, combinazione di più deviazioni.
Cause
Le cause della distonia cervicale non sono ancora del tutto note. La distonia cervicale può essere primaria o secondaria. Nei casi di distonia primaria, non vi è alcuna causa identificabile. La distonia secondaria si manifesta in seguito ad un’alterazione strutturale specifica o metabolica, abitualmente associata ad altri disturbi neurologici.
Il torcicollo spasmodico può colpire una persona, senza che altri membri della famiglia ne abbiano sofferto (caso sporadico). Spesso però succede che i pazienti affetti da distonia cervicale abbiano una familiarità positiva, pertanto si suppone una eziologia genetica.
Epidemiologia
La distonia cervicale è la forma più frequente di distonia localizzata (focale). La prevalenza è stimata tra 28 e 183 casi su un milione, mentre l’incidenza è di 8-12 casi su un milione di persone all’anno. Le donne sono più colpite da questa condizione rispetto agli uomini (in un rapporto di 2 a 1).
Questa patologia compare abitualmente verso i 40 anni, i sintomi si manifestano nella 4 e 5 decade, ma può anche apparire in giovane età, nel bambino o nell’adolescente. Più comune nelle femmine rispetto ai maschi, con un rapporto di 1,7:1,1.
Se le deviazioni del capo sono occasionali, la distonia cervicale può rimanere non diagnosticata per anni. La diagnosi, generalmente fatta da un medico generico o neurologo, si basa sulla presenza di:
- limitazione dei movimenti del collo del paziente;
- postura anomala del capo o del collo, accompagnata o meno a tremore;
- aumento del volume muscolare di alcuni o tutti i muscoli coinvolti.
È possibile realizzare un’elettromiografia che permette di misurare l’attività dei muscoli, in ambulatorio o presso un reparto di neurofisiologia in ospedale. Rispetto all’abituale elettromiografia realizzata con aghi molto sottili inseriti nel muscolo, questo esame si realizza mediante elettrodi applicati sulla pelle per registrare i movimenti anomali della distonia.
Secondo la gravità della distonia cervicale, si possono prevedere diversi trattamenti.
- Le iniezioni di tossina botulinica di tipo A, questa neurotossina blocca la trasmissione dell’impulso nervoso a livello della giunzione nervo-muscolo, generando quindi una diminuzione delle contrazioni muscolari per circa tre mesi;
- La terapia farmacologica, mediante farmaci di varie classi terapeutiche che possono agire sui sintomi della distonia cervicale, quali:
- i miorilassanti, che rilassano i muscoli e diminuiscono gli spasmi muscolari;
- gli anticolinergici, che permettono di ridurre gli effetti dell’acetilcolina, un neurotrasmettitore del sistema nervoso;
- le benzodiazepine, che riducono l’ansia e calmano gli spasmi dolorosi,
- gli antidolorifici.
- La chirurgia, viene impiegata nelle forme più gravi di distonia, in seguito al fallimento degli altri approcci terapeutici e dopo valutazione neurofisiologica. Nel caso della distonia cervicale, si preferisce una tecnica neurochirurgia selettiva e periferica (al di fuori della colonna vertebrale).
- La kinesiterapia, è utilizzata come complemento delle terapie farmacologiche o con tossina botulinica. Esercizi specifici permettono di ristabilire un equilibrio fra i muscoli troppo sollecitati e quelli che non lo sono, in modo da recuperare la postura naturale e aumentare l’ampiezza del movimento di rotazione del capo. Per essere efficace, la kinesiterapia deve essere accompagnata da esercizi di auto-rieducazione che il paziente deve realizzare quotidianamente.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Fonti:
- Giovanni Defazio, Joseph Jankovic, Jennifer L. Giel, & Spyridon Papapetropoulos. Descriptive Epidemiology of Cervical Dystonia. Tremor and Other Hyperkinetic Movements. 2013
- Albanese A, Asmus F, Bhatia KP, Elia AE, Elibol B, Filippini G, Gasser T, Krauss JK, Nardocci N, Newton A, Valls-Solé J. EFNS guidelines on diagnosis and treatment of primary dystonias. Eur J Neurol. 2011;18(1):5-18
- De Pauw J, Van der Velden K, Meirte J, Van Daele U, Truijen S, Cras P, Mercelis R, De Hertogh W. The effectiveness of physiotherapy for cervical dystonia: a systematic literature review. J Neurol. 2014 261:1857–1865
- A. Jinnah, M.D., Ph.D. Diagnosis & Treatment of Dystonia. Neurol Clin. 2015 February ; 33(1): 77–100. doi:10.1016/j.ncl.2014.09.002.
- Alberto Albanese. How Many Dystonias? Clinical evidence. Frontiers in Neurology 2017
Key Numbers
- Le cause della distonia cervicale non sono ancora ben conosciute
- Questa patologia compare abitualmente verso i 40 anni
Piede equino
Il piede equino o piede equino varo spastico è una deformità del piede solitamente secondaria a ictus o a paralisi cerebrale, ma che può anche essere dovuta a una malformazione congenita. Questa patologia altera la deambulazione, costituendo un vero e proprio limite alla mobilità.
Definizione
Il piede equino (dal latino «equinus», cavallo) è una deformità del piede con flessione verso l’interno e il basso. A causa di ciò, la normale deambulazione è sostituta dalla deambulazione sulla punta dei piedi.
L’equinismo è conseguente:
- alla contrazione involontaria dei muscoli (spasticità) del polpaccio a seguito di una lesione cerebrale, che può portare all’incapacità di compiere la dorsiflessione (movimento che consiste nel sollevamento del piede verso la tibia) del piede e delle dita del piede;
- alla deformità di uno o spesso di entrambi i piedi insorta durante il decorso della gravidanza. Ciò determina una displasia (malformazione o deformazione a seguito di un’anomalia insorta nello sviluppo intrauterino) congenita di tutti i tessuti (ossa, legamenti, nervi, vasi sanguigni) al di sotto del ginocchio.
Sintomi
La deformità del piede equino può essere più o meno grave. Si definisce equinismo dinamico quando è ancora possibile lo stiramento dei muscoli del polpaccio. Si parla invece di equinismo statico quando lo stiramento è impedito dalla presenza di fibrosi dei muscoli (riparazione di un danno tissutale mediante tessuto fibroso). La deambulazione anomala (sulla parte anteriore del piede) provocata dal piede equino incide sulla mobilità e sull’equilibrio, sollecitando la caviglia in modo inadeguato. La conseguente zoppia influisce inoltre negativamente sul benessere psichico e sulla vita sociale.
Cause
Le principali cause del piede equino acquisito sono l’ictus nell’adulto e la paralisi cerebrale nel bambino (un danno cerebrale può infatti determinare la spasticità dell’arto inferiore, portando all’equinismo).
Nei casi di piede equino alla nascita (congenito), la patologia è idiopatica (con causa ignota o non ereditaria) o non idiopatica (associata a sindromi genetiche oppure dovuta a una malattia neurologica).
Epidemiologia
Il piede equino è uno dei difetti congeniti muscoloscheletrici più diffusi, con una prevalenza da 0,6 a 1,57 su 1.000 nati vivi.
Per i pazienti di età pari o superiore a due anni, affetti da piede equino di origini diverse (paralisi cerebrale, ictus, sclerosi multipla, traumi cranici, ecc.), i dati disponibili non permettono di stimare la frequenza della patologia.
Per giungere alla diagnosi di piede equino, il medico valuta la resistenza allo stiramento del muscolo dell’arto colpito e l’impatto della spasticità sulla qualità di vita del paziente.
Lo specialista valuterà la situazione su tre fronti:
- Diagnosi positiva, cioè la conferma della presenza del piede equino conseguente a semplici mal posizionamenti del/i piede/i nell’utero (più frequenti e correggibili più facilmente). Il piede si è conformato normalmente nei primi mesi di gravidanza, ma successivamente ha assunto un orientamento scorretto per la “posizione” costretta all’interno della cavità uterina;
- Diagnosi di gravità, questa diagnosi consiste nella valutazione del grado della patologia.
Solitamente il livello di gravità viene stabilito secondo la classificazione di Diméglio e Pirani, che si basano rispettivamente su:
-
- il punteggio di riducibilità: valutata con un punteggio compreso tra 0 e 4 in base all’angolo verticale del piede;
- criteri di gravità, quali la presenza sul piede di una piega posteriore, di un cavus (cavismo eccessivo della volta plantare) o di un’ipertonia (tono muscolare eccessivo).
- Diagnosi eziologica che consiste nel determinare le cause della patologia o la sua origine idiopatica.
Esistono diversi tipi di trattamento per ridurre o limitare le possibili conseguenze negative dell’equinismo.
I trattamenti del piede equino secondario a una lesione cerebrale sono:
- l’iniezione di tossina botulinica in tipo A, che agisce a livello della giunzione tra nervo e muscolo bloccando temporaneamente la trasmissione di un composto, l’acetilcolina. Ciò determina un’effettiva diminuzione del tono dei muscoli spastici;
- le farmacoterapie, i miorilassanti (rilassanti muscolari) hanno gli stessi fini terapeutici della tossina botulinica, ma con un profilo di tolleranza diverso. Rilassano i muscoli spastici della gamba, permettendo di poggiare il piede a terra in piano. Questo tipo di trattamento deve essere rivalutato regolarmente per determinarne l’efficacia, adattare le dosi e misurare gli effetti collaterali secondari;
- l’uso di ortesi (dispositivo medico realizzato su misura volto a normalizzare l’assetto podalico) per la deambulazione, che permette di mantenere il piede in una posizione che formi un angolo retto con la gamba, facilitando la deambulazione.
I trattamenti dell’equinismo congenito:
- il trattamento funzionale, questa tecnica prevede la rieducazione quotidiana da parte di fisioterapisti specializzati e l’uso di tutori e di fasciature per mantenere il piede in posizione corretta. Deve essere effettuato per quasi 3 anni;
- metodo Dottor Ponseti, la deformazione del piede è trattata con una serie di gessi settimanali per correggere la rigidità legamentosa, stirare le giunzioni miotendinee e rilassare i muscoli ipertonici. Dopo il 5° gesso, se necessario, si procede all’allungamento chirurgico del tendine d’Achille (tenotomia) e alla stabilizzazione post-tenotomia con gessi ortopedici;
- il trattamento chirurgico, in caso di fallimento del trattamento con gesso o con tutori talvolta per trattare l’equinismo congenito è necessario intervenire chirurgicamente. È possibile a partire dagli 8 mesi di età e consiste nell’allungamento delle strutture retratte (legamenti, tendini, ecc.) che impediscono la correzione della deformazione. L’operazione è realizzata eseguendo una o due incisioni, per poi mantenere il piede con un tutore e un gesso per 45 giorni;
- l’uso di tutori per la postura e di ortesi per la deambulazione risulta utile sia dopo l’intervento chirurgico, sia nei pazienti non operati. I tutori e le ortesi permettono di stabilizzare la posizione del piede e di facilitare la deambulazione.
Nonostante l’efficacia di questi trattamenti, nei pazienti affetti da equinismo congenito saranno inevitabili alcuni difetti residui:
- piede di dimensioni inferiori (1, 2 o addirittura 3 numeri di differenza);
- polpaccio meno pronunciato sul lato del piede affetto;
- debolezza del muscolo del polpaccio.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Fonti:
- Benedetti MG, D’Apote G, Faccioli S, Costi S, Ferrari A. Equinus foot classification in cerebral palsy: an agreement study between clinical and gait analysis assessment. Eur J Phys Rehabil Med. 2011 Jun; 47(2):213-21.
- Kinsella S. S. et al. (2008) “Gait pattern categorization of stroke participants with equinus deformity of the foot”. Gait and Posture; 27: 144-51
- Julieanne P. Sees Freeman Miller. Overview of foot deformity management in children with cerebral palsy. J Child Orthop (2013) 7:373–377
- Adnan Ansar, Ahmed Ehsanur Rahman, Lorena Romero, Mohammad Rifat Haider, Mohammad Masudur Rahman, Md Moinuddin, Md Abu Bakkar Siddique, Md Al Mamun, Tapas Mazumder, Shafique Pyarali Pirani, Richard Gordon Mathias,Shams EI Arifeen,Dewan Md Emdadul Hoque. Systematic review and meta-analysis of global birth prevalence of clubfoot: a study protocol. BMJ Open 2018;8:e019246. doi:10.1136/bmjopen-2017-019246
- Ashish Anand and Debra A Sala. Clubfoot: Etiology and treatment. Indian J Orthop. 2008 Jan-Mar; 42(1): 22–28.doi: 4103/0019-5413.38576
Key Numbers
- I dati disponibili non permettono di stimare la frequenza della patologia
- Prevalenza da 0,6 a 1,57 su 1.000 nati vivi
Spasmo emifacciale
Lo spasmo emifacciale è una contrazione involontaria (detta appunto spasmo) dei muscoli facciali da un lato del viso, in partenza dal distretto oculare, con successiva diffusione in altre sedi. Con il decorso della malattia brevi contrazioni possono gradualmente trasformarsi in contrazioni più sostenute e possono essere coinvolti altri muscoli facciali dello stesso lato del volto.
Definizione
Lo spasmo emifacciale è caratterizzato da contratture involontarie e unilaterali del viso nelle regioni innervate dal nervo facciale (fronte, sopracciglia, palpebre, labbra). Solitamente insorge con spasmi occasionali della palpebra, per poi propagarsi ad altri muscoli facciali situati sullo stesso lato del viso e ai muscoli superficiali del collo. Nonostante le numerose somiglianze, lo spasmo dell’emivolto non è una distonia.
Sintomi
Lo spasmo emifacciale produce nel volto una “smorfia” piuttosto caratteristica, con forte ammiccamento (chiusura involontaria e veloce) dell’occhio, stiramento della bocca sullo stesso lato, contrazione della fronte e innalzamento di un sopracciglio. E’ a volte presente inoltre un rumore all’interno dell’orecchio sul lato spastico, dovuto alla contrazione di un piccolo muscolo dell’orecchio.
Queste contratture muscolari incontrollabili sono inizialmente molto brevi e rare. Sebbene talvolta si osservino dei periodi di remissione, gli spasmi tendono ad aumentare e a prolungarsi nel corso del tempo, determinando una deformazione del viso quasi permanente che può portare alla cecità funzionale di un occhio. Questi sintomi possono aggravarsi con la stanchezza o lo stress e generalmente persistono anche durante il sonno.
La patologia è quindi molto invalidante con un impatto sull’attività della vita quotidiana per il deficit visivo e sulla vita sociale per l’alterata conformazione del volto.
Cause
Lo spasmo emifacciale è provocato da una lesione del nervo facciale. Può essere dovuto a una compressione dell’arteria cerebellare, a un tumore, a un danno traumatico del nervo o a seguito di una paralisi facciale.
Epidemiologia
L’incidenza media annuale è di 0,81 per 100.000 nelle donne e 0,74 per 100.000 negli uomini. La prevalenza media è stimata di 11 per 100.000 nella popolazione totale. La distribuzione per sesso è 2 a 1, in quanto le donne sembrano più soggette. In uno studio americano l’età con la più alta prevalenza di insorgenza dello spasmo facciale è risultata essere tra i 40 e 59 anni mentre secondo uno studio norvegese l’età media di insorgenza è 54 anni.
La diagnosi dello spasmo emifacciale si basa:
- sul colloquio medico e sull’esame clinico del paziente. E’ necessario distinguere lo spasmo dell’emivolto dagli altri movimenti anomali simili, come il blefarospasmo, i tic facciali, le miochimie (serie di contrazioni su tutta la lunghezza di un muscolo) o lo spasmo facciale post-paralitico;
- su una risonanza magnetica (RM) cerebrale (tomografia a risonanza magnetica), spesso utile per precisare la diagnosi. Questo esame, unitamente a una angio-RM (RM che consente di studiare i vasi sanguigni dell’organismo), permette anche di evidenziare un conflitto neuro-vascolare (contatto tra nervi e vene o arterie, causa di una compressione eccessiva che provoca disturbi), tra il nervo facciale e un’arteria del cervello nell’88 % dei casi. In questa situazione clinica deve essere previsto un intervento neurochirurgico.
Esistono diversi trattamenti per alleviare lo spasmo emifacciale nei pazienti affetti.
- Le iniezioni di tossina botulinica di tipo A, permettono di limitare il segnale nervoso che arriva al muscolo, attenuando le contrazioni muscolari;
- La chirurgia, è utilizzata come trattamento alternativo all’iniezione di tossina botulinica, soprattutto in caso di spasmo emifacciale secondario a una lesione. In questo caso, l’intervento chirurgico è spesso la migliore scelta di trattamento nei soggetti giovani;
- Le farmacoterapie, si utilizzano diversi trattamenti farmacologici come gli antiepilettici, gli anticolinergici, i neurolettici.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Fonti:
- Christian Rosenstengel, Marc Matthes, Jörg Baldauf, Steffen Fleck, Henry Schroeder. Hemifacial spasm- conservative and surgical treatment options. Dtsch Arztebl Int 2012;
- H.A. Jinnah, Alfredo Berardelli, Cynthia Comella, Giovanni Defazio, Mahlon DeLong, Stewart Factor, Wendy R. Galpern, Mark Hallett,Christy L. Ludlow, Joel S. Perlmutter, and Ami Rosen, for the Dystonia Coalition Investigators. Mov Disord. 2013 Jun 15; 28(7):926-43
- Alex Y. Lu, Jacky T. Yeung, Jason L. Gerrard, EliasM.Michaelides, Raymond F. Sekula Jr., and Ketan R. Bulsara. Hemifacial Spasm and Neurovascular Compression. The ScientificWorld Journal. 2014
Key Numbers
- Età di insorgenza 40-59 anni
- L’incidenza media annuale è di 0,81 per 100.000 nelle donne e 0,74 per 100.000 negli uomini
Spasticità
La spasticità può essere causata da numerose patologie come l’ictus, il trauma cranico, la sclerosi multipla, la paralisi cerebrale, etc. Gli arti spastici, costantemente contratti, perdono la loro flessibilità e possono provocare problemi di mobilità e dolori.
Definizione
Il termine spasticità descrive l’insieme delle attività muscolari secondarie ad una lesione del sistema nervoso centrale.
La spasticità è dovuta ad una contrazione muscolare riflessa esagerata, scatenata dallo stiramento del muscolo. Questo aumento abnorme del tono muscolare detto anche “ipertonia” è causato dalla disinibizione del riflesso miotattico (il riflesso che contrae un muscolo in risposta allo stiramento) in seguito a lesioni cerebrali o del midollo spinale.
Questo aumento del tono muscolare può essere invalidante e generare una continua contrazione, troppo violenta a riposo e troppo intensa al minimo stimolo. L’arto flesso non può più essere deflesso, provocando problemi di mobilità e dolori.
Sintomi
La spasticità si sviluppa in modo progressivo e si manifesta completamente dopo varie settimane.
Interessa un gruppo di muscoli più o meno importanti, la cui localizzazione corrisponde a quella della lesione della zona cerebrale o midollare:
- localizzazione in caso di ictus o lesioni cerebrali traumatiche, è colpito un solo lato del cervello e ciò provoca una paralisi parziale (detta paresi) oppure completa del lato opposto del corpo. La spasticità potrà dunque colpire tutta la metà del corpo, l’arto inferiore o quello superiore;
- localizzazione in caso di sclerosi multipla, in questo caso, le lesioni possono coinvolgere il cervello o il midollo spinale. La spasticità colpisce essenzialmente i due arti inferiori causando problemi di locomozione.
La spasticità si caratterizza clinicamente con due segnali principali:
- l’aumento del riflesso di stiramento, cioè un’eccessiva contrazione muscolare riflessa, scatenata dallo stiramento;
- l’ipertonia muscolare, aumento eccessivo e permanente del tono muscolare.
Le complicazioni sono molteplici: in caso di grave spasticità, con il tempo si instaurano modifiche della struttura muscolare (retrazioni muscolari o contratture). Possono altresì comparire problemi di mobilità e di equilibrio, tremolii, dolori e un rallentamento della crescita nel bambino o implicazioni sulla qualità di vita.
Cause
Nelle sue diverse forme, la spasticità accompagna la maggior parte dei disturbi neurologici deficitari conseguenti a:
- ictus;
- trauma cranico;
- lesioni del midollo (spinale);
- sclerosi multipla;
- paralisi cerebrale.
L’ictus è attualmente la terza causa di morte in Italia e la prima causa di disabilità a lungo termine. Si tratta di una lesione cerebrale causata dall’interruzione del flusso di sangue al cervello dovuta a ostruzione o a rottura di un’arteria. Quando un’arteria nel cervello si danneggia o si ostruisce, interrompendo o fermando il flusso di sangue, i neuroni, privati dell’ossigeno e dei nutrimenti necessari anche solo per pochi minuti, cominciano a morire. La funzione del cervello che regola il riflesso miotattico (da stiramento) può essere dunque parzialmente distrutta e generare una spasticità.
Epidemiologia
A causa dell’invecchiamento della popolazione, con l’aumento della sopravvivenza media, è stato calcolato che entro il 2030 ci saranno 70 milioni di pazienti con esiti di ictus nel mondo. Lo sviluppo di una spasticità (ipertonia muscolare = aumento del tono muscolare) dopo l’ictus, è piuttosto comune ed è uno dei fenomeni in grado di limitare maggiormente il recupero funzionale ed incidere pesantemente sulla disabilità dei pazienti affetti da esiti di ictus.
Si stima lo sviluppo di una spasticità sintomatica circa in un terzo dei pazienti post ictus (range 4– 42%) nel 60% dei pazienti con sclerosi multipla severa. Circa il 75% dei pazienti con disabilità fisica dopo una lesione traumatica cerebrale severa sviluppa una spasticità che richiede uno specifico trattamento. L ’insorgenza della spasticità varia dal 65% al 78% nei pazienti con lesione del midollo spinale cronica (≥1 anno dopo l’infortunio).
La spasticità dopo ictus compare solitamente nel 25% dei casi entro le prime 6 settimane e interessa nel 79% dei casi l’articolazione del gomito, e in uguale percentuale del 66% l’articolazione del polso e della caviglia.
È necessaria un’analisi clinica rigorosa per determinare l’importanza, le conseguenze reali e la gravità della spasticità. Per definire una diagnosi il medico valuta:
- la resistenza del muscolo dell’arto coinvolto dallo stiramento;
- l’impatto della spasticità sulle attività della vita quotidiana del paziente; la spasticità non è infatti trattata a meno che non implichi un disturbo funzionale che possa essere curato con un’apposita terapia;
- la sua potenziale «utilità», in particolare nei casi in cui la spasticità permette di controbilanciare un altro deficit di origine neurologica (l’ipertonia muscolare permette ad esempio di mantenere la posizione eretta nonostante una debolezza o paresi paralisi parziale della gamba). Ridurre la spasticità in questo caso avrebbe un impatto negativo sulla mobilità del paziente.
In caso di trattamento la strategia terapeutica si basa sull’approccio per obiettivi personalizzati e mira a:
- migliorare la motricità (per effettuare un gesto o camminare);
- ridurre la sintomatologia dolorosa;
- migliorare il nursing care (l’insieme delle cure infermieristiche o familiari date al paziente).
Esistono diversi tipi di trattamento:
- l’iniezione di tossina botulinica di tipo A, (solo per alcune forme di spasticità). Blocca la trasmissione tra il nervo motore e il muscolo target attraverso l’inibizione del rilascio di acetilcolina (neurotrasmettitore) e in questo modo genera una riduzione delle contrazioni muscolari;
- le terapie farmacologiche, generalmente prescritte in caso di spasticità evidente, si basano su miorilassanti. I derivati della cannabis, somministrati via orale, hanno una certa efficacia sulla spasticità, in particolare quella conseguente alla sclerosi multipla. Questo tipo di trattamento dev’essere rivalutato regolarmente per determinarne l’efficacia, adattare le dosi e controllare gli effetti collaterali. La somministrazione intratecale di miorilassanti può costituire un’alternativa in caso di spasticità grave per ictus, lesioni del midollo post-traumatiche o in seguito a sclerosi multipla, dopo il fallimento della terapia per via orale o se le dosi efficaci provocano effetti collaterali sul sistema nervoso centrale;
- il ricorso alla chirurgia, ipotizzato nei casi di fallimento delle altre terapie;
- la kinesiterapia, indispensabile anche in caso di terapia farmacologica o chirurgica, riduce la spasticità e permette di imparare ad utilizzare al meglio le capacità restanti. Gli esercizi di stiramento permettono di mantenere una migliore autonomia di movimento dell’articolazione e impedire il sopraggiungere di retrazioni muscolari o contratture spesso dolorose;
- l’utilizzo di tutore contenitivo e ortesi, prescritti da un ortopedico, un neurologo o un fisioterapista. Questi ausili ortopedici rigidi permettono di mantenere l’arto spastico in posizione fissa.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Fonti:
- Jörg Wissel, Molly Verrier Dip (P&OT), MHSc b, David M. Simpson, David Charles, Pia Guinto, Spyros Papapetropoulos, Katharina S. Sunnerhagen. Post-stroke Spasticity: Predictors of Early Development and Considerations for Therapeutic Intervention. PM&R Volume 7, Issue 1, January 2015, Pages 60-67
- Feigin VL, Forouzanfar MH, Krishnamurthi R, Mensah GA, Connor M, Bennett DA, et al. Global and regional burden of stroke during 1990-2010: findings from the Global Burden of Disease Study 2010. Lancet Lond Engl. 2014 Jan 18;383(9913):245–54 A
- Picelli, M. Bortolami, M. Gandolfi, I. Storti, G. Di Girolamo, F. Dambruoso, A. Midiri, F. Corrà, C. Fontana, F. Origano, A. Fiaschi, N. Smania. Incidenza e distribuzione somatica della spasticità in pazienti affetti da ictus cerebrale. EUR MED PHYS 2008;44 (Suppl. 1 to No. 3)
- Gerard E. Francisco, MD; John R. McGuire, MD. Poststroke Spasticity Management. Stroke. 2012;43:3132–3136
Key Numbers
- La spasticità si sviluppa in modo progressivo
- L’ictus è attualmente la 3a causa di morte in Italia e la 1a causa di disabilità
Neurologia
Endocrinologia
L’endocrinologia è la branca della medicina interna dedicata allo studio delle ghiandole che producono gli ormoni, sostanze chimiche in grado di assicurare funzioni essenziali al nostro organismo. Le malattie endocrine possono essere responsabili di disturbi ormonali e metabolici.
Acromegalia
Descritta per la prima volta da Pierre Marie alla fine dell’800, l’acromegalia è un disturbo ormonale causato da un’ipersecrezione cronica dell’ormone della crescita o GH (Growth Hormone).
Definizione
L’acromegalia è caratterizzata da un ingrandimento delle mani e dei piedi, così come da una modificazione dei tratti somatici del viso. Questi sintomi sono dovuti ad una eccessiva secrezione dell’ormone della crescita (GH, Growth Hormone) da parte dell’ipofisi, una piccola ghiandola situata alla base del cranio. Quest’ormone svolge un ruolo fondamentale nella crescita del bambino e dell’adolescente, ma è anche indispensabile nell’adulto per la regolazione del metabolismo degli zuccheri e dei grassi, ed è coinvolto nella regolazione del processo di invecchiamento. L’eccessiva produzione di ormone della crescita da parte dell’ipofisi, è causata nella stragrande maggioranza dei casi da un tumore benigno (detto adenoma ipofisario).
Sintomi
I sintomi dell’acromegalia sono dovuti sia all’eccesso di ormone della crescita (GH, Growth Hormone) che alla crescita del tumore ipofisario in sé. Essi sono numerosi, compaiono in modo progressivo e spesso diventano evidenti solo dopo diversi anni.
Sintomi legati all’eccesso di ormone della crescita:
- progressiva modificazione delle estremità (mani e piedi) e dei caratteri somatici del viso, si assiste all’aumento della misura delle scarpe e alla difficoltà ad estrarre anelli e protesi dentali. Il viso presenta lineamenti più marcati, con allargamento del naso, la pelle risulta ispessita, così come le labbra, mentre le arcate sopraccigliari, gli zigomi e il mento diventano prominenti, i denti si separano e la voce acquisisce una tonalità rauca e grave;
- aumento del volume degli organi interni, in particolare del fegato (epatomegalia), della tiroide (gozzo) e del cuore (cardiomegalia, presente nel 70% all’80 % dei casi) che si traduce in soffio cardiaco (insufficienza cardiaca) e ipertensione arteriosa (35% dei casi) irreversibili. Queste ultime condizioni rappresentando la prima causa di morte per acromegalia;
- dolori alla schiena (rachialgie) e alle articolazioni (artralgie), colpiscono i due terzi dei pazienti. I dolori possono diventare molto invalidanti, soprattutto se coinvolgono le articolazioni delle dita (causando difficoltà a scrivere, allacciare le scarpe, usare un telefono, etc.);
- possibili deformazioni ossee e, in particolare, deviazione della colonna vertebrale (scoliosi) o ipercifosi (curvatura eccessiva della parte dorsale della schiena);
- comparsa della sindrome del “tunnel carpale”, per schiacciamento del nervo mediano da parte del tessuto muscolare ingrossato; è molto frequente, all’inizio causa torpore, formicolio e poi veri e propri dolori al polso e alla mano;
- broncopatia e apnea del sonno, dovute all’ispessimento della mucosa della gola e dei bronchi. Sono sintomi frequenti (fino al 60% dei casi) e sono accompagnati da sonnolenza durante la giornata; se si aggravano nel lungo periodo possono dar seguito a disturbi cardiaci e respiratori;
- diabete mellito;
- affaticamento;
- altre conseguenze dell’eccesso dell’ormone della crescita, quali aumento del peso corporeo, ispessimento della pelle, eccessiva sudorazione e edema cutaneo, irsutismo;
- formazione di piccole escrescenze benigne della parete del colon (polipi o adenomi colon-rettali) che possono raramente degenerare in carcinomi. Per questo, è consigliato effettuare regolari colonscopie.
Sintomi legati alla massa del tumore ipofisario:
- mal di testa (cefalee) dovuti al volume del tumore ipofisario (65% dei casi);
- disturbi visivi dovuti alla compressione delle vie ottiche (20% dei casi);
- diminuzione della produzione di alcuni ormoni ipofisari con conseguente ipotiroidismo.
A causa delle numerose conseguenze sulla salute, l’acromegalia ha un impatto diretto sull’aspettativa di vita del malato. Se diagnosticata tardivamente o non trattata adeguatamente, la malattia determina una diminuzione dell’aspettativa di vita di circa 10 anni.
Cause
L’acromegalia non è ereditaria e non si trasmette da una generazione alle successive. Non esistono fattori di rischio o di prevenzione conosciuti e non è possibile diagnosticarla se non dopo la comparsa dei primi sintomi.
Epidemiologia
L’acromegalia è una malattia rara, ma con un numero di casi in aumento dovuto ad una migliore capacità diagnostica. Si contano 28-137 casi su 1 milione di individui. Può comparire ad ogni età, dopo i 18 anni, ma più spesso è diagnosticata intorno ai 40 anni ed è di riscontro eccezionale negli anziani. Questa malattia è leggermente più frequente nelle donne.
L’acromegalia è caratterizzata da una diagnosi spesso tardiva, dovuta alla comparsa lenta dei sintomi e dei cambiamenti somatici che si osservano, insidiosi, con il passare degli anni. Talvolta il paziente si reca da specialisti diversi perché avverte vari disturbi, quali mal di testa, artralgie o eritemi cutanei, sintomi che difficilmente vengono messi in relazione l’uno con l’altro. Spesso la diagnosi viene formulata anche una decina di anni dopo i primi sintomi.
Per confermare la diagnosi di acromegalia, si consigliano diversi esami:
- le analisi del sangue, che confermano elevati livelli di ormane della crescita (GH) e IGF-1 (mediatore periferico di GH); essi sono indicatori dell’attività clinica dell’acromegalia;
- il test di soppressione dell’ormone della crescita con glucosio (OGTT), che consiste nell’aumentare artificialmente il livello di glucosio nel sangue (bevendo un liquido zuccherato) e misurare quindi regolarmente il livello ematico di GH. In un individuo sano, l’aumento del livello di zucchero provoca una diminuzione della secrezione di GH; nei casi di acromegalia invece i livelli restano costanti e si parla di assenza di soppressione;
- la tomografia assiale computerizzata (TAC) o la risonanza magnetica nucleare (RMN), permettono di evidenziare la presenza di un adenoma ipofisario.
Gli approcci terapeutici all’acromegalia attualmente disponibili rispondono a un duplice obiettivo:
- rimuovere il tumore e attenuarne i sintomi;
- normalizzare il livello di ormone della crescita (GH) e di IGF-1, per prevenire l’evoluzione della malattia e soprattutto l’aggravarsi di malattie concomitanti, spesso irreversibili.
La chirurgia, consiste nell’escissione dell’adenoma ipofisario tramite accesso transfenoideo (intranasale). L’intervento permette di ristabilire una normale secrezione dell’ormone della crescita nel 90% nei casi di adenomi di piccole dimensioni (<10 mm) e nel 50-60% nei casi di adenomi superiori a 10 mm (o macroadenomi).
Si possono ipotizzare altri trattamenti come la radioterapia o terapie farmacologiche se il trattamento per via chirurgica non è indicato o se la chirurgia non è sufficiente a normalizzare il livello di IGF-1 o dell’ormone della crescita, oppure in caso di recidiva.
Le terapie farmacologiche, permettono di ridurre la secrezione dell’ormone della crescita e/o dell’IGF-1 causata dal tumore. Esistono farmaci con differenti meccanismi d’azione:
-
- gli analoghi della somatostatina, aiutano a normalizzare i livelli di GH e ridurre il volume dell’adenoma entro i primi 3 mesi di terapia;
- i farmaci dopaminergici, diminuiscono la secrezione di GH da parte del tumore e i livelli di prolattinemia, se elevati.
- l’antagonista del recettore del GH, impedisce al GH di agire sul suo recettore e può essere impiegato da solo o in combinazione con analoghi della somatostatina o con i farmaci dopaminergici, quando essi non sono sufficientemente efficaci.
Il trattamento radiologico, viene utilizzato quando le terapie descritte precedentemente non sono risolutive. Si tratta della somministrazione di radiazioni ionizzanti in grado di danneggiare il tessuto interessato, dirette verso il punto preciso che è sede dell’adenoma ipofisario.
I benefici del trattamento radiologico risultano evidenti dopo vari mesi dall’inizio della terapia.
In funzione dei sintomi e dell’evoluzione della malattia, può rilevarsi necessario il ricorso a diversi specialisti, come il cardiologo, il diabetologo, l’oftalmologo e il reumatologo.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Fonti:
- Chanson et al., Orphanet Journal of Rare Diseases 2008
- Bollerslev et a Eur J Endocrinol 2019
- Melmed et a 2018, Nat Rev Endocrinol. 2018
Key numbers:
- Numero di persone affette da acromegalia: 0.2-1.2 ogni 100000 individui/anno
- Età media della diagnosi di acromegalia: 40 anni
Bambini con insufficienza renale cronica
L’insufficienza renale cronica è caratterizzata da una perdita progressiva e irreversibile del funzionamento del rene, che provoca nel bambino diversi disturbi della crescita e numerosi altri sintomi.
Definizione
Si parla di insufficienza renale cronica quando i reni perdono progressivamente la loro funzione di filtrare il sangue e si danneggiano in modo irreversibile, causando un accumulo progressivo di prodotti del metabolismo e/o di acqua nell’organismo.
I reni sono deputati, fra le altre cose, all’eliminazione delle sostanze acide derivanti dalla degradazione delle proteine: quando il rene non è più in grado di eliminarle, esse si accumulano, dando origine ad uno stato di acidosi che causa la degradazione dell’ormone della crescita, anche denominato GH (Growth Hormone). L’insufficienza renale provoca inoltre alterazioni a carico dei recettori del GH, con ripercussioni importanti durante la fase della crescita e nella pubertà.
Sintomi
Nelle fasi avanzate, l’insufficienza renale cronica può provocare nel bambino i seguenti sintomi e alterazioni biochimiche:
- necessità di urinare con maggior frequenza;
- alitosi;
- perdita dell’appetito, nausea, vomito;
- mancanza di fiato, affaticamento;
- eruzioni cutanee;
- crampi notturni, gambe senza riposo;
- disturbi del sonno;
- rigonfiamento delle palpebre e delle caviglie (edema);
- possibile aumento della pressione arteriosa;
- anemia (costante);
- alterata concentrazione ematica di alcuni elettroliti (sodio, potassio, calcio ecc.).
Le complicanze di questa patologia hanno poi un impatto sullo scheletro del bambino, poiché causano un ritardo della crescita dovuto alla diminuzione dei livelli di GH e all’alterazione dei relativi recettori. A lungo termine, questo ritardo può avere ripercussioni gravi e invalidanti, sia sul piano fisico che psicologico. Il ritardo risulta, inoltre, tanto più importante quanto più precoce è l’insorgenza dell’insufficienza renale. Altre conseguenze a carico dello scheletro possono essere le deformazioni ossee (rachitismo), provocate da un mal assorbimento del calcio alimentare da parte dell’intestino a causa di una quantità insufficiente di vitamina D (sostanza prodotta dai reni).
Cause
Diverse patologie possono portare all’insorgenza di un’insufficienza renale cronica nel bambino, fra le quali:
- le malattie congenite, incluse le malattie dell’apparato urinario, come il reflusso vescico-ureterale (ritorno di urina dalla vescica verso i reni) che, se non diagnosticate e curate in tempo, provocano un progressivo e irreversibile danno renale;
- le malattie ereditarie (malattie cistiche, glomerulari, tubolari o ancora lesioni renali associate a disturbi del metabolismo) che possono essere dovute ad un’anomalia dello sviluppo renale, e sono spesso responsabili di un’insufficienza renale grave;
- le malattie acquisite durante l’infanzia (glomerulonefrite acuta o sindrome emolitico – uremica) possono evolvere verso un’insufficienza renale cronica.
Epidemiologia
L’insufficienza renale cronica non è eccezionale nei bambini; la sua incidenza varia da 7 a 12 casi per milione di individui all’anno.
Un’insufficienza renale cronica viene diagnosticata quando la velocità di filtrazione renale (glomerulare) diminuisce. Questo valore è denominato GFR. In almeno un terzo dei casi, questa patologia è diagnosticata ad uno stadio avanzato, per cui la terapia sostitutiva della funzione renale diventa necessaria.
L’insufficienza renale cronica è irreversibile e la terapia prevede tre fasi:
- terapia conservativa, che ha l’obiettivo di correggere le alterazioni provocate dall’insufficienza renale. Comporta misure dietetiche e farmaci per controllare la perdita della funzione renale. Gli obiettivi terapeutici sono correggere le carenze nutritive (vitamina D, calcio, ferro) grazie ad integratori alimentari, trattare l’anemia (con ferro e terapia con eritropoietina ricombinante), correggere gli squilibri elettrolitici (acidosi, eccesso di potassio, eccesso di fosfato) attraverso misure dietetiche mirate, trattare l’ipertensione arteriosa.
- dialisi, quando il bambino è in fase di insufficienza renale terminale (perdita totale della funzione renale che comporta un pericolo di vita a breve termine) è la procedura che si sostituisce alla funzione fisiologica dei reni;
- trapianto di rene, destinato a sostituire uno dei due reni malati con un rene da donatore. Quest’operazione, che presenta in tutti i casi un rischio di rigetto acuto dell’organo, se va a buon fine permette di ritrovare una qualità di vita quasi normale, ma comporta tuttavia terapie immunosoppressive per tutta la durata dell’esistenza per evitare il rigetto cronico. Si può ipotizzare una terapia con GH ricombinante in soluzione iniettabile, fino al trapianto di rene se le condizioni cliniche lo rendono necessario.
In tutti i casi i pazienti con insufficienza renale cronica sono a più elevato rischio di tossicità conseguente all’accumulo dei metaboliti di farmaci assunti, che la maggior parte delle volte vengono eliminati per via renale.
La crescita staturo-ponderale del bambino deve essere strettamente controllata, per correggerne il ritardo. Le valutazioni si devono effettuare a partire dalle misurazioni della statura e della velocità di crescita (minimo 2 misurazioni della statura a 6 mesi/1 anno di intervallo); esse devono essere comparate con quelle della popolazione generale del paese per i bambini della stessa età e sesso.
E‘necessario prevenire i rischi d’infezione vaccinando il bambino contro l’epatite B, l’influenza e il pneumococco.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Fonti:
- Kaspar et al. Blood Purif 2016
- M. Broyer, EMC 2006
Key Numbers
- 9 persone su 1 milione, soffrono di questa patologia….
- ….e hanno meno di 20 anni
Deficit dell'ormone della crescita
Il deficit dell’ormone della crescita, spesso dovuto ad un danno dell’ipotalamo o dell’ipofisi, ha numerose conseguenze negative sui bambini e sugli adulti che ne sono colpiti (ritardo della crescita, problemi metabolici, ecc.).
Definizione
L’ormone della crescita (GH, growth hormone) possiede un ruolo fondamentale nello sviluppo del bambino e dell’adolescente, ma è anche indispensabile nell’adulto, perché contribuisce al buon funzionamento dell’organismo e regola il processo di invecchiamento.
L’ormone della crescita è secreto dall’ipofisi (una ghiandola situata alla base del cranio) che produce quest’ormone sotto il controllo dell’ipotalamo (struttura del cervello che collega il sistema nervoso centrale e il sistema endocrino). L’ormone della crescita agisce sia direttamente che attraverso un altro ormone, l’IGF-1 prodotto dal fegato.
Il deficit dell’ormone della crescita si può attribuire ad una disfunzione dell’ipofisi e/o dell’ipotalamo. Si verifica dunque quando l’ipofisi non lo secerne più in quantità adeguata. In questo caso, anche l’IGF-1 è prodotto in quantità insufficiente dal fegato.
Sintomi
Il deficit dell’ormone della crescita ha numerose conseguenze sulla salute del bambino e dell’adulto.
- Nel bambino, l’insufficienza di quest’ormone genera importanti disturbi della crescita che sono caratterizzati da:
-bassa statura;
-ritardo nello sviluppo;
-fragilità ossea;
-viso infantile;
-aumento della massa grassa, in particolare a livello addominale;
-diminuzione della massa muscolare, con conseguente debolezza e difficoltà nella pratica dell’esercizio fisico.
- Nell’adulto, il deficit dell’ormone della crescita provoca varie conseguenze metaboliche e psicologiche:
-massa grassa eccessiva, in particolare a livello addominale;
-debolezza muscolare;
-alterazione del metabolismo energetico che determina un aumento della sensazione di fatica durante lo sforzo fisico;
-disturbi della composizione del tessuto osseo con conseguente aumento del rischio di fratture;
-aumento dei livelli di colesterolo e dei rischi cardio-vascolari;
-malessere fisico e compromessa qualità di vita (diminuzione della libido e della concentrazione).
Cause
Nel bambino, la causa del deficit dell’ormone della crescita è sconosciuta (idiopatica) nel 75% dei casi, nel 20% è di origine organica e nel restante 5% ha cause genetiche.
Tra le cause principali troviamo:
- un’anomalia dello sviluppo della ghiandola ipofisaria presente dalla nascita;
- una lesione ipofisaria e/o ipotalamica dovuta a processi infiltrativi (es. ipofisiti), irradiazioni del cervello (radioterapia), traumi cranici gravi, tumori, ecc;
- una patologia genetica (mutazioni o delezioni geniche, deficit del recettore GHRH).
Nell’adulto bisogna distinguere il deficit congenito (familiare o sporadico) da quello acquisito (nell’età adulta) per causa sconosciuta o per lesioni della regione ipotalamo-ipofisaria (tumori, infiltrazioni, necrosi, trauma, chirurgia, radioterapia).
Epidemiologia
Il numero di bambini colpiti da un deficit dell’ormone della crescita non è conosciuto con precisione.
In Europa e negli Stati Uniti, varia tra 1 caso ogni 4.000 e 1 caso ogni 10.000 bambini. Questa variabile si spiega con il polimorfismo clinico, i limiti dei test di stimolazione dell’ormone della crescita (utilizzato in fase di diagnosi) e i problemi di interpretazione diagnostica dei valori soglia.
Nell’adulto, bisogna distinguere il deficit scoperto alla nascita (da 1 ogni 5.000 a 1 ogni 10.000) da quello acquisito (10 ogni milione all’anno).
Per poter confermare la diagnosi di deficit dell’ormone della crescita, quando ci si trovi di fronte a quadri clinici caratteristici, quali la bassa statura, correlata con il peso e con statura e peso dei genitori, è necessario, dopo aver escluso eventuali altre malattie sistemiche, misurare il livello di ormone della crescita nel sangue; la difficoltà risiede nel fatto che questo livello varia di ora in ora. In effetti, l’ormone della crescita è secreto sotto forma di picchi durante la giornata, con una maggiore intensità durante il sonno. Bisogna dunque effettuare vari prelievi di sangue o provocare un picco di secrezione ormonale (test di stimolazione) e compararlo con i livelli di riferimento.
Ulteriori analisi consigliate sono le seguenti:
- test endocrini, tiroxina libera T4 e ormone stimolante la tiroide TSH;
- dosaggio dell’IGF-1 (ormone secreto dal fegato sotto azione dell’ormone della crescita). Mediante un prelievo venoso si misurano i livelli ematici dell’ormone IGF-1, indicativi dei livelli circolanti dell’ormone della crescita prodotto dall’organismo. Questo dosaggio è anch’esso variabile e diverso a seconda dell’età (e del sesso), ma rimane più costante nel corso della giornata;
- test di provocazione/stimolazione dell’ormone della crescita, viene stimolata la secrezione dell’ormone della crescita mediante l’uso di diverse sostanze (l’insulina e il glucagone in particolare, due ormoni che stimolano l’ipofisi) e successivamente dosati i livelli circolanti.
Come complemento, una RMN (Risonanza Magnetica Nucleare) cerebrale permette di ottenere immagini della regione ipotalamo-ipofisaria e di confermare un’eventuale patologia in questa regione. Malgrado questi esami, la diagnosi di deficit dell’ormone della crescita nel bambino è generalmente tardiva (8,48 ± 4,3 anni nel bambino e 6,9 ± 3,8 anni nella bambina), a causa dei tempi necessari affinché i disturbi generati dalla patologia allertino i familiari e/o medici.
Quest’assenza di diagnosi precoce è responsabile di numerose conseguenze per il paziente:
- bassa statura irreversibile, con conseguente impatto psicologico;
- aspettativa di vita ridotta in età adulta, visto l’aumento della frequenza di cardiopatie ischemiche (apporto ematico insufficiente al cuore);
- aumento dei rischi di fratture per osteoporosi.
È importante, soprattutto nel bambino, ricercare altri deficit ormonali associati a questa patologia.
Il deficit dell’ormone della crescita è trattato con una terapia ormonale sostitutiva (forma sintetica dell’ormone della crescita simile all’ormone naturale umano) prescritta dal medico specialista. Questo ormone della crescita ricombinante è somministrato al paziente sotto forma d’iniezione sottocutanea giornaliera, la sera prima di andare a letto.
La durata del trattamento dipende dal singolo paziente e dall’età in cui il deficit di ormone della crescita è stato scoperto:
- il deficit di GH acquisito nell’infanzia dev’essere regolarmente rivalutato nel corso degli anni mediante esami di follow-up (controllo del peso, statura, tolleranza al trattamento) e la terapia può essere spesso interrotta nell’età adulta;
- il deficit di GH acquisito nell’età adulta richiede generalmente un trattamento a vita, anche se può succedere che l’endocrinologo decida di sospendere la terapia nelle persone anziane.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Key Numbers
- In Europa e negli Stati Uniti, varia tra 1 caso ogni 4.000 e 1 caso ogni 10.000 bambini
- La causa di un deficit dell’ormone della crescita è sconosciuta nel 75% dei casi
Deficit primario severo di IGF-1
IGF-1 (Insulin Like-Growth Factor 1) è una proteina con struttura simile a quella dell’insulina, coinvolta nello sviluppo di molti tessuti dell’organismo, la cui produzione è stimolata dalla presenza di ormone della crescita. Un deficit primario severo di IGF-1 provoca un ritardo nell’accrescimento del bambino e dell’adolescente e numerose alterazioni anatomiche, morfologiche e fisiologiche.
Definizione
Il deficit primario severo di IGF-1 o SPIGFD “Severe Primary IGF Deficiency” è una malattia rara, responsabile di ritardi importanti della crescita del bambino e dell’adolescente; ciò ha considerevoli conseguenze sia sul piano fisico che psicologico.
L’IGF-1 (o somatomedina C), è un ormone prodotto dal fegato ed è un mediatore degli effetti dell’ormone della crescita (o GH, Growth Hormone). L’IGF-1 stimola l’assorbimento del glucosio, degli acidi grassi e degli amminoacidi, che permettono al metabolismo di supportare la crescita dei tessuti. Interviene anche nello sviluppo del sistema nervoso e ha un ruolo fondamentale nel processo di consolidamento della massa ossea.
Si definisce deficit primario severo di IGF-1 la condizione in cui le concentrazioni di IGF-1 sono inferiori rispetto alla norma (< 2,5° percentile per età e sesso), non è presente una concomitante insufficiente secrezione dell’ormone della crescita e la patologia non ha un’origine secondaria.
Cause
Il deficit è conseguente ad un’anomalia a carico della via che a partire dal GH, attraverso una serie di eventi intracellulari, porta a una secrezione anomala di IGF-1.
La Sindrome di Laron (descritta nel 1999 da Laron Z.), malattia congenita dovuta alle mutazioni del gene GHR (recettore dell’ormone della crescita), è la forma più tipica del deficit primario di IGF-1. Tale condizione è caratterizzata da un aumento di GH a fronte di una diminuzione di IGF-1, con sintomi tipici descritti in seguito
Sintomi
A seconda dell’origine, i segni e i sintomi possono variare.
Nel caso della sindrome di Laron le principali manifestazioni cliniche sono:
- statura molto bassa;
- facies caratteristica, con assenza di picco staturale in pubertà;
- obesità;
- ipogonadismo (perdita del funzionamento delle gonadi, con un’insufficiente produzione di ovuli/spermatozoi e secrezione ormonale);
- anomalie metaboliche.
La gravità e la manifestazione di ciascuno di tali sintomi varia da individuo a individuo.
Le altre forme di deficit primario di IGF1 si manifestano in modo più attenuato rispetto alla sindrome di Laron, con caratteristiche anatomiche, morfologiche e psicologiche meno gravi e un’assenza di anomalia genetica individuabile.
Epidemiologia
Il deficit severo di IGF-1 è una malattia molto rara, la cui incidenza è inferiore a 1 su 10.000 e la prevalenza, secondo gli studi, varia dall’ 1,2 all’11%.
Nella pratica si può applicare il termine di deficit primario severo di IGF-1 ai bambini che presentano:
- una bassa statura;
- un livello sierico di IGF-1 basso (in base all’età);
- un livello sierico di GH normale o elevato.
Nei bambini colpiti da deficit primario di IGF-1, il trattamento con ormone della crescita (GH) è inefficace perché esiste un «blocco» nella via GH / IGF1.
Tra i casi di deficit primario, si distinguono:
- le anomalie della via GH / IGF-1: in questo caso il trattamento a lungo termine per i ritardi della crescita, è costituito dall’IGF-1 derivato dal DNA ricombinante.
- le anomalie con origine in altre sedi (come le anomalie del recettore dell’IGF-1), che non sono sensibili al trattamento con IGF-1 ricombinate
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Key Numbers
- Incidenza inferiore a 1 su 10.000 individui
- Prevalenza, secondo gli studi, che varia dall’1,2% all’11%
Pubertà precoce
La pubertà precoce è caratterizzata dalla comparsa dei caratteri sessuali secondari prima dei 7 o degli 8 anni nelle femmine e prima dei 9 anni nei maschi. Senza un trattamento, questa patologia porta al paradosso di statura elevata nell’infanzia e di statura ridotta da adulto.
Definizione
La pubertà, ovvero lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari, compare in media a 11 anni nelle femmine e a 13 anni nei maschi, ma sempre più bambini presentano una pubertà precoce (prima di 7 o 8 anni nella femmina e prima di 9 anni nel maschio).
Si distinguono due tipi di pubertà precoce:
- la pubertà precoce centrale (o pubertà precoce «vera») è dovuta all’attivazione prematura del cosiddetto asse ipotalamo-ipofisi-gonadi, tramite l’attivazione precoce della secrezione del GnRH (una sostanza che origina dall’ipotalamo); la produzione di questo ormone presenta caratteristiche simili a quelle della pubertà fisiologica. Quindi sotto l’impulso dell’ipotalamo e dell’ipofisi (strutture del cervello responsabili della produzione di ormoni), le gonadi (testicoli e ovaie) secernono gli ormoni sessuali (steroidi) che scatenano la pubertà;
- la pubertà precoce periferica è dovuta ad una secrezione di steroidi sessuali indipendente dall’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi, riconducibile ad altre alterazioni (tumore gonadico o surrenale, iperplasia congenita del surrene, ecc.).
Sintomi
La pubertà precoce si caratterizza per la comparsa prematura dello sviluppo puberale:
- nel maschio, con l’aumento del volume testicolare, la comparsa di peli pubici e lo sviluppo del pene;
- nella femmina, si osserva lo sviluppo delle ghiandole mammarie, la comparsa di peli pubici, e molto più raramente delle mestruazioni.
La pubertà precoce comporta diverse conseguenze negative per il bambino:
- la statura adulta risulterà ridotta dato l’arresto prematuro della crescita dovuto al precoce saldamento delle cartilagini di accrescimento indotto dagli ormoni sessuali (in particolare dagli estrogeni);
- la comparsa precoce dei segni di pubertà comporta un disagio psicologico e sociale.
Cause
La pubertà precoce centrale è generalmente idiopatica (senza causa nota) nell’80%-95% delle femmine e nel 50% dei maschi (una volta su due, si riscontra un tumore).
Tuttavia, la sua comparsa può essere favorita da diversi fattori:
- l’origine etnica, le femmine di origine africana o ispanica sono maggiormente colpite da pubertà precoce rispetto alle femmine d’origine asiatica o caucasica;
- la mancanza di attività fisica, che tende ad anticipare la comparsa della pubertà;
- le preferenze alimentari culturali, un’alimentazione particolarmente ricca di grassi favorisce la produzione di due ormoni che influenzano lo sviluppo sessuale (estrogeno e insulina);
- l’esposizione ad alcuni interferenti endocrini ambientali (in particolare il bisfenolo A, composto organico aromatico che si sospetta abbia un ruolo nella comparsa della pubertà precoce).
Epidemiologia
Si stima che l’incidenza globale della precocità sessuale sia compresa tra 1 su 5.000 e 1 su 10.000 bambini, con un rapporto femmina/maschio di circa 10 a 1.
La pubertà precoce può essere diagnosticata mediante i seguenti esami:
- l’esame fisico, realizzato da un medico generico, permette di valutare inizialmente lo stadio di sviluppo dei caratteri sessuali secondari, l’evoluzione della curva di crescita e i fattori di rischio familiari;
- il bilancio ormonale, la realizzazione di un test GnRH permette di evidenziare l’attività sulle gonadi con un dosaggio degli steroidi sessuali;
- la radiografia del polso sinistro, permette di determinare l’età ossea e quindi di confermare che la pubertà è iniziata. Infatti, la secrezione degli steroidi sessuali provoca l’accelerazione della maturazione ossea e la saldatura prematura delle cartilagini di crescita, determinando una statura ridotta;
- l’ecografia pelvica, riservata ai casi di pubertà precoce femminile, questo esame permette di visualizzare il volume delle ovaie e dell’utero e quindi il livello di sviluppo puberale, ma anche di ricercare la presenza di tumori o di cisti ovariche potenzialmente responsabili di pubertà precoce di origine periferica;
- la tomografia a risonanza magnetica dell’ipofisi, se la pubertà precoce viene confermata, si esegue sistematicamente una tomografia a risonanza magnetica della regione ipotalamo-ipofisaria per valutare il volume dell’ipofisi. In caso di pubertà precoce, questa ghiandola è più voluminosa e tondeggiante. Questo esame permette anche di verificare l’assenza di tumori in questa zona del cervello, potenzialmente responsabili di questa condizione.
La conseguenza principale della pubertà è la bassa statura in età adulta.
Dagli anni ’80, gli analoghi del GnRH rappresentano il trattamento privilegiato per la pubertà precoce centrale. Essi permettono di bloccare lo sviluppo puberale, di limitare l’avanzamento dell’età ossea e di normalizzare la velocità di crescita. Tutti questi elementi consentono di ristabilire un’aspettativa di crescita normale e di raggiungere una statura definitiva normale.
La soppressione degli ormoni attivi sulle gonadi ottenuta dagli analoghi è reversibile: l’attività gonadotropa (di azione sulle gonadi) riprende qualche mese dopo la sospensione del trattamento.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Fonti
- http://endocrinologia-pediatrica.it/wp-content/uploads/2017/12/Puberta-precoce-1.pdf– ultimo accesso 11/02/2019
- Società Italiana Pediatria: https://www.sip.it/2019/01/10/puberta-precoce-e-anticipata/ – ultimo accesso 11/02/2019
Key Numbers
- 7 o 8 anni età media della comparsa della pubertà precoce nella femmina
- 9 anni età media della comparsa della pubertà precoce nel maschio
Sindrome di Turner
La sindrome di Turner è una patologia esclusivamente femminile dovuta all’assenza completa o parziale di uno dei due cromosomi X; è responsabile di bassa statura, infertilità e numerose altre manifestazioni patologiche.
Definizione
La Sindrome di Turner è dovuta ad un’anomalia genetica ed è così denominata dopo che l’endocrinologo Henry Turner ne descrisse i sintomi nel 1938. Se normalmente una donna nasce con due cromosomi X, in questa patologia, uno dei due cromosomi X è interamente o parzialmente assente o anomalo (mancante cioè di alcuni tratti):
- nel 55 % dei casi, il cromosoma X è assente in tutte le cellule;
- nel 25 % dei casi, uno dei due cromosomi X è normale, l’altro incompleto;
- nel 20 % dei casi, il cromosoma X è assente ma solo in alcune cellule.
Sintomi
La Sindrome di Turner è caratterizzata da:
- bassa statura, nel 98 % dei casi, le donne colpite da questa sindrome e non trattate hanno un’altezza di circa 20 cm inferiore alla media, mediamente attorno a 145 cm. La curva di crescita delle persone colpite da questa sindrome devia dalla normalità verso i 4 anni di età e subisce un rallentamento progressivo durante la crescita;
- insufficienza ovarica con infertilità, la disfunzione ovarica impedisce lo sviluppo puberale nella maggior parte delle pazienti (mancato sviluppo del seno e assenza delle mestruazioni). Pur presentando un aspetto normale, gli organi genitali restano infantili;
- dimensione corporea ridotta, in generale, con rigonfiamento del torace, delle mani e dei piedi e un collo dal caratteristico aspetto palmato.
Questi sintomi sono spesso accompagnati da altri disturbi, quali:
- problemi cardiaci (ipertensione, dissezione aortica) e patologie malformative renali (rene a ferro di cavallo);
- demineralizzazione ossea (osteoporosi) che aumenta il rischio di fratture;
- tratti del viso particolari (caratteristico collo palmato) e anomalie scheletriche degli arti;
- linfedema delle mani e dei piedi;
- diabete di tipo 2 (insulino-resistenza);
- ipotiroidismo (mal funzionamento della ghiandola tiroidea);
- intolleranza al glutine (celiachia);
- Obesità;
- disturbi otorinolaringoiatrici (frequenti otiti, diminuzione dell’udito);
- strabismo;
- difficoltà di apprendimento.
Cause
Quest’anomalia cromosomica genetica si verifica in modo casuale e non è determinata da un fattore ereditario o ambientale. Non esistono evidenze che dimostrino una correlazione fra la sindrome e il concepimento in età avanzata.
Epidemiologia
Le Sindrome di Turner è una patologia genetica rara, che colpisce un neonato di sesso femminile su 2.000 – 2.500.
Per confermare la diagnosi di Sindrome di Turner si effettua l’esame del cariotipo.
Questo esame consente di analizzare il corredo cromosomico di un individuo evidenziandone eventuali anomalie. In epoca prenatale, l’esame viene eseguito su cellule dei villi coriali, di origine placentare, o su cellule fetali presenti nel liquido amniotico. Questi due tipi di cellule vengono prelevate rispettivamente attraverso la villocentesi e l’amniocentesi. La diagnosi può anche essere realizzata durante l’infanzia (in media tra gli 8 e i 10 anni), o in seguito. In questi ultimi casi, il cariotipo viene eseguito su cellule ematiche a partire da un semplice prelievo di sangue.
Esistono trattamenti farmacologici che correggono il ritardo della crescita e l’insufficienza ovarica.
- Terapia a base di analoghi dell’ormone della crescita (somatotropina o GH) permette di trattare il ritardo nell’accrescimento associato a carenza dell’ormone della crescita. Questo trattamento, sotto forma di soluzione iniettabile, è prescritto dal medico specialista. Può essere somministrato fino ad un’età ossea di 14 anni (confermata tramite esame radiologico);
- Trattamento ormonale sostitutivo a base di estrogeni in un primo momento e successivamente di estrogeni e progesterone, permette di sostituire gli ormoni normalmente prodotti dalle ovaie. Questo trattamento inizia durante la pubertà e prosegue sin dopo l’età della menopausa per prevenire l’insorgenza dell’osteoporosi.
Data la complessità della Sindrome di Turner si ritiene ormai necessario un approccio multidisciplinare alla patologia. La presa in carico deve avvenire da parte di un’equipe che comprenda pediatri, endocrinologi, chirurghi, psicologi e neuropsichiatri infantili, che possano lavorare congiuntamente nella salvaguardia della qualità di vita di queste pazienti e delle loro famiglie.
Le informazioni di questa pagina non sostituiscono il parere del medico.
Fonti
- NIH: Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development – ultimo accesso 11/02/2019
- Giovanni Neri, Maurizio Genuardi, Genetica umana e medica, 2010
Key Numbers
- Questa malattia colpisce una neonata ogni 2.500
- Nel 55 % dei casi delle donne con sindrome di Turner, il cromosoma X è assente in tutte le cellule
Endocrinologia